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Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
4/6 aprile 2008
Sesshin di Vitorchiano
Diretta dal MaestroRoland Yuno Rech

Jijuyu Zanmai del Maestro Menzan
Samadhi della realizzazione di sé da se stessi


Venerdì 4 aprile 2008, kusen delle 7:00

Durante zazen riportate costantemente la vostra attenzione ai punti importanti della vostra postura. Basculate bene il bacino in avanti, prendete con forza appoggio con le ginocchia sul suolo e distendendo il ventre. Lasciate che il peso del corpo prema bene sullo zafu. Il bacino è basculato in avanti come se volessimo che l’ano non toccasse il cuscino, ma le reni non devono essere troppo inarcate. La zona del plesso solare deve essere completamente distesa in modo che l’espirazione possa andare fino in fondo. A partire dalla vita, estendiamo bene la colonna vertebrale e la nuca rilassando le tensioni della schiena e delle spalle. Il mento è rientrato e spingiamo il cielo con la sommità del capo. E’ importante sentire una forte energia nella nuca che stimola l’attenzione. Tenete gli occhi bene aperti e non attaccatevi agli oggetti visivi intorno a voi. Lo sguardo è semplicemente posato davanti a sé, sul suolo, non guarda nulla di speciale. Così lo sguardo abbraccia tutto lo spazio davanti a sé. La lingua è contro il palato. Se avete la tendenza a seguire i vostri pensieri, ponete la vostra attenzione sul contatto della lingua con il palato. Ciò calma il discorso interiore.
 
Non si cerca di controllare lo spirito con lo spirito, ma si riporta costantemente l’attenzione dello spirito al corpo. E’ questo ritorno al corpo che permette di lasciare la presa, di abbandonare le proprie abitudini mentali, di fermare naturalmente l’incatenamento dei pensieri. Appena si prende coscienza di qualche cosa, si ritorna alla postura del corpo e alla respirazione, soprattutto all’espirazione e lasciamo che tutti i pensieri, le immagini, le sensazioni ritornino alla loro sorgente, cioè alla vacuità. Così si realizza lo spirito che non dimora su nulla, uno spirito che non afferra nulla e non si oppone a nulla, uno spirito vasto che ingloba tutte le cose e non si lascia oscurare dalle fabbricazioni mentali.
 
Concentratevi ugualmente bene sulla posizione delle vostre mani: la mano sinistra nella mano destra, i pollici orizzontali e il taglio delle mani in contatto con il basso ventre. In questa posizione le mani non fanno nulla e soprattutto non afferrano nulla. Ciò influenza la coscienza. Se siamo concentrati, se mettiamo la nostra attenzione sulle mani, la coscienza diventa come le mani: non fabbrica nulla, non afferra nulla. Mentre ci concentriamo sulle mani, osserviamo la posizione delle mani: se i pollici, invece di restare orizzontali, formano una valle, significa che lo spirito cade nel kontin, nella sonnolenza e in quel momento dobbiamo concentrarci ancora di più sull’inspirazione. Inspirare a fondo più volte, mantenere gli occhi bene aperti e vedere chiaramente cosa sta accadendo in noi ed intorno a noi. Tutto ciò stimola la vigilanza. Ma se la vigilanza è troppo stimolata, si finisce in sanran, troppi pensieri. Allora, ci si riconcentra sull’espirazione. Si mette tutta la propria energia sotto l’ombelico e si fa particolare attenzione a rientrare bene il mento.
 
Così, attraverso la concentrazione sul corpo e l’osservazione del corpo, si può ritornare costantemente ad uno stato dello spirito equilibrato. Si è perfettamente coscienti di tutto quello che accade ma non ci si attacca ad alcun fenomeno particolare. Si resta in contatto con la realtà, sia la realtà interna, sia il mondo intorno a sé, ma non ci si perde nei fenomeni.
 
E, certamente, questo vale anche per la vita quotidiana. Specialmente durante una sesshin, la pratica non è limitata al tempo dello zazen. Durante le ventiquattr’ore del giorno e della notte, ogni nostra postura, ogni nostra azione è l’occasione di praticare questa vigilanza. Che sia durante la cerimonia, i pasti, il samu, il riposo, la toilette, si resta perfettamente attenti a ciò che si fa. Allo stesso tempo si è attenti agli altri. Si ingloba se stessi e gli altri nella stessa attenzione senza creare nè separazioni nè opposizioni. Sperimentare questo è la funzione del Sangha.

Venerdì 4 aprile 2008, kusen delle 11:00

Durante zazen non lasciate che il vostro spirito sia oscurato dai vostri pensieri. Non lasciate che si accumulino come nuvole nel cielo. Alla fine di ogni espirazione, lasciamo passare i pensieri e all’inspirazione seguente troviamo uno spirito fresco e nuovo. Il modo di lasciar passare i pensieri è di non dargli gli troppa importanza, di non alimentarli, non dare loro energia, in altre parole, non aderire ad essi. Per questo, mettiamo tutta l’energia nella postura del corpo. Così tutte le fabbricazioni mentali diventano leggere, più fluide, non occupano più il centro della nostra vita. Il centro è il nostro modo di essere qui e ora, corpo e spirito in unità, in unità con la pratica, con l’azione presente, senza lasciare che pensieri ci trasportino altrove e anche se ci portano via, ritorniamo rapidamente al qui e ora.
 
Spesso non riusciamo a lasciar passare i pensieri perché li troviamo molto importanti. Ma qualche minuto più tardi o qualche ora più tardi non sono più così importanti. Oppure, al momento di morire, non sono più così importanti. E’ per questo che il Maestro Deshimaru ci raccomandava di praticare zazen come se dovessimo entrare nella bara. In quel momento, tutto ciò che ci preoccupa abitualmente, diventa molto meno importante e possiamo risvegliarci alla cosa essenziale della nostra vita. Possiamo osservare la vacuità delle nostre fabbricazioni mentali, la totale assenza di sostanza di qualsiasi cosa di permanente. Osservare la vacuità di questi pensieri, permette di chiarificare lo spirito, di lasciare la presa rapidamente. Allora le nuvole si dissipano e la luce naturale dello spirito brilla.
 
Quando cantiamo il Busshô Kapila, rendiamo omaggio ai dieci Buddha, in particolare Shin jin pa shin Birûshâ nô fû. Birûshâ nô fû è il Buddha Vairochana la cui luce illumina il mondo intero: è come un sole. Il sole è un oggetto al di fuori di noi, mentre Vairochana è il Buddha che esiste in noi stessi, non soltanto un oggetto di culto, è la nostra autentica natura, che la pratica di zazen ci permette di ritrovare. Quando pratichiamo zazen con la concentrazione giusta, questo zazen rischiara universalmente, cioè ci rischiara interiormente, dissipando le ombre dei nostri bonno, dei nostri attaccamenti, ed allo stesso tempo questo zazen irradia all’esterno e contribuisce a rischiarare gli altri. Per sedersi in zazen, ci si siede di fronte al muro e si dice che rivolgiamo la luce dello spirito verso l’interno. Ma quando pratichiamo ciò, questa luce dello spirito dissipa ogni separazione tra l’interno e l’esterno, tra se stessi e gli altri. Non c’è una pratica per sé e una pratica per gli altri, poiché sé e gli altri non sono più separati. Tutto ciò che si fa per sé, lo si fa per gli altri, tutto ciò che si dona agli altri, lo si dona a se stessi. Non è una questione di sacrificio ma di risvegliarsi all’autentica natura della nostra esistenza che è senza separazioni. Fare una sesshin è sperimentare ciò, diventare intimi con questo corpo e con questo spirito, senza separazioni.

Venerdì 4 aprile 2008, kusen delle 16:30

Dopo lo zazen, la mattina e la sera, facciamo una cerimonia durante la quale recitiamo dei sûtra, principalmente l’Hannya Shingyô, i grandi testi scritti dai patriarchi dello Zen quali il Sandôkai, l’Hôkyô Zanmai, il Fukanzazengi. Attraverso delle parole, questi insegnamenti tentano di esprimere che cos’è il risveglio del Buddha. Ma nessuno lo può esprimere completamente. Si può dire che sono tutti degli insegnamenti provvisori. Persino il Sûtra del Loto, che è generalmente considerato come il sûtra che esprime l’insegnamento definitivo, si accontenta di annunciare costantemente che il Buddha esprimerà questo insegnamento definitivo, questa saggezza suprema e alla fine non lo insegna mai, lo annuncia solamente.
 
Questo insegnamento definitivo mostra semplicemente che non possiamo mai esprimere definitivamente il risveglio e che non possiamo esprimerlo completamente, ma se ne può fare l’esperienza nella pratica. La pratica è sempre al di là delle spiegazioni. Tutta la trasmissione dello Zen è basata su ciò. Non è una negazione delle scritture, dell’insegnamento dei sûtra, ma il ricordarci che la realtà dell’esperienza è sempre al di là di ciò che se ne può dire.
 
E’ ciò che faceva dire al Maestro Menzan: “E’ del tutto chiaro che l’autentico risveglio del Buddha non può essere mai afferrato attraverso delle parole o delle discriminazioni, né attraverso lo spirito illusorio degli esseri umani ordinari”. Ma in zazen si può rischiarare questo spirito illusorio e ordinario che ci impedisce di vedere la realtà così com’è, semplicemente perché il nostro spirito ordinario è condizionato dalle nostre emozioni, a volte molto antiche. Anche i pensieri attraverso i quali cerchiamo di comprendere il mondo, sono completamente condizionati dal nostro karma, dalla nostra storia. Ma generalmente non vediamo che un aspetto della realtà. Quando siamo pessimisti, vediamo tutto nero e pensiamo che gli ottimisti siano completamente nell’illusione. Quando siamo ottimisti, si ha la tendenza a sottovalutare il male e la sofferenza. Quando studiamo l’Hannya Shingyô, per esempio, si studia il fatto che tutto ciò che compone il nostro ego è in realtà senza sostanza, vacuità, così come tutti gli oggetti dei nostri attaccamenti, gli oggetti dei sensi, compresi gli oggetti intellettuali, compreso anche il Dharma del Buddha, le Quattro Nobili Verità, i Dodici Anelli di Origine Dipendente. In definitiva tutto ciò è ku, senza sostanza. E se si cerca di capire questo con il nostro spirito ordinario, rischiamo di diventare completamente nichilisti, di attaccarci alla vacuità, di ridurre cioè la realtà a essere soltanto un concetto, ku, vacuità.
 
Un giorno, dopo zazen, un discepolo di Joshu venne a dirgli: “Ho compreso che cos’è ku“. Joshu gli aveva detto: “Abbandona anche questa comprensione”.
 
Tutto ciò che crediamo di comprendere, è sempre una comprensione provvisoria. Allora, se comprendiamo questo, possiamo distaccarci autenticamente dalla nostra mente che discrimina, rinunciare a rinchiudere la realtà nelle nostre fabbricazioni mentali. La realtà non è né bene né male, né vera né falsa, è completamente al di là di tutte queste categorie. Senza dirlo, senza parlarne, zazen ci rende familiari con questo, zazen fluidifica le nostre coagulazioni mentali e permette di realizzare uno spirito vasto che non dimora su nulla, che non afferra la realtà, che non se ne fa alcuna idea, alcuna teoria, ma si armonizza naturalmente con essa, abbandonando ogni forma di egocentrismo, di avidità, compresa quella di credere di cogliere la verità.
 
E’ la ragione per la quale, quando volle trasmettere l’essenza della sua esperienza spirituale, Shâkyamuni si accontentò di prendere un fiore e di farlo girare silenziosamente tra le dita, con una totale attenzione al fiore stesso. Il fiore non è stato usato come simbolo di qualcosa, allo stesso modo in cui il nostro corpo, in zazen, non è simbolo di qualcosa . E’ semplicemente, al di là di tutte le categorie mentali, come il fiore, come le rose che non hanno un perché. Solo Mahâkâshyapa sorride davanti a questo gesto del Buddha. Questo istante di comunione nella stessa esperienza è l’origine stessa della trasmissione dello zen.
 
Buddha ha comunque detto qualcosa per gli altri: “Io possiedo lo shôbôgenzô nehan myôshin, il Tesoro dell’Occhio della Vera Legge, del Vero Dharma, e lo spirito sereno del nirvâna, nehan myôshin, e lo trasmetto ora a Mahâkâshyapa”. Realizzare noi stessi, qui e ora lo shôbôgenzô nehan myôshin, è il senso della nostra pratica.
 
Non cercate di ridurre lo zazen per farlo rientrare nei vostri concetti. Lo spirito sereno del nirvâna è al di là di ogni pensiero e si realizza ogni volta che lasciamo la presa rispetto ai nostri pensieri e alle nostre emozioni.

Venerdì 4 aprile 2008, mondô

- Quando vado a parlare nelle scuole, i ragazzi spesso mi chiedono della reincarnazione. Io tendo a presentarla in un’ottica molto “Mahâyâna”, nel senso che non è così importante in che cosa ci reincarniamo, ma è importante la reincarnazione nel ‘qui e ora’, nel momento presente. Dico che la reincarnazione non è un punto così importante del buddhismo. A volte mi sembra di esser impegnato in uno sforzo per tentare di conciliare l’idea del buddhismo primitivo con il buddhismo Mahâyâna. Perché il Buddha effettivamente parlava della reincarnazione, di abbandonare il ciclo delle rinascite. Mi sembra in un certo senso di tradire l’insegnamento vero del Buddha.
 
- L’insegnamento autentico del Buddha... Sempre nello Zen si cerca di sapere quale era l’insegnamento autentico del Buddha. E’ un punto essenziale dello Zen. Ma alla fine credo che non si debba cercare di cogliere quale era l’insegnamento autentico del Buddha. Perché il Buddha insegnava unicamente in funzione delle persone che erano di fronte a lui. E’ per questo che ci sono molti insegnamenti. Lui ha insegnato per quarantacinque, quarantanove anni, a seconda della tradizione, e ha fatto dei discorsi molto diversi, in funzione dei suoi ascoltatori. E in seguito questi ascoltatori ricordavano ciò che insegnava il Buddha in funzione dei loro propri limiti di comprensione, del loro spirito limitato. Questo fa sì che tutto l’insegnamento della Prajnâ Pâramitâ, che è stata insegnata dal Buddha - ad ogni modo è ciò che si crede nel Mahâyâna - è stato perso. E la tradizione dice che Nagarjuna è andato sotto l’oceano, in una grotta e lì l’ha trovata, custodita dai nâga. Quindi, per esempio, a proposito della reincarnazione, è vero che Buddha ha sempre parlato di rinascite. E perché ne parlava? Perché era l’ossessione degli indiani della sua epoca. Credevano tutti alle rinascite ed erano tutti ossessionati dall’idea di evitarle. E’ per questo che ne parlava, perché era la loro preoccupazione. Ma non ha mai detto che bisognava attaccarsi a questo pensiero delle rinascite e si è sempre rifiutato di fare descrizioni sulle vite successive, sulle vite dopo la morte. Per lui era tempo perso il pensare alla vita dopo la morte. Se le persone chiedevano, dava delle risposte di buon senso: se avete un buon karma, avrete una buona rinascita, se siete avari, diventerete poveri in una prossima vita, se siete generosi, se fate molti fuse, sarete ricchi più tardi, se siete tutto il tempo in collera, rinascerete con un viso non bello, brutto. Ma rispondeva in questo modo solo perché le persone erano preoccupate da ciò, ma non era il cuore del suo insegnamento. Il cuore del suo insegnamento era di realizzare lo spirito sereno del nirvǎna, qui e ora. Ma per fare in modo che le persone praticassero la meditazione, lo zazen che era il cuore del suo insegnamento, rispondeva alle domande che gli si faceva in funzione delle loro preoccupazioni.
 
Quindi non vedo in che cosa si tradisce l’insegnamento del Buddha quando si dice che l’essenziale è come ci si reincarna qui e ora, perché era l’essenziale, anche nel buddhismo primitivo, nei sǔtra del buddhismo primitivo. Del resto, non ha mai accettato che si negassero le rinascite e a volte ci sono anche dei cosiddetti maestri zen - in ogni caso, maestri zen moderni - che non ne parlano, che fanno come se non esistesse. Questo è errato dal punto di vista dell’insegnamento del Buddha. Insegnare che non c’è nulla dopo la morte, che la morte è la fine assoluta, questo è un punto di vista nichilista che il Buddha ha sempre rifiutato, per tutto il tempo. Allo stesso modo, credere che abbiamo un’anima permanente che trasmigra di esistenza in esistenza, anche questo l’ha sempre rifiutato. Invece, insegnava la Via del Mezzo, che dice in realtà ciò che continua è il concatenarsi delle cause interdipendenti. Non è un ego che rinasce, ma il seguito di un karma.
 
E’ proprio questo che bisogna insegnare ai bambini. Non bisogna fare un insegnamento diverso per i bambini, è abbastanza semplice da capire. Per esempio, possono arrivare a capire che se guardano delle fotografie di quando erano bambini, quando avevano otto, dieci anni, quindici anni, non sono uguali. Sì, c’è qualcosa di simile, ma anche molte cose diverse. Non è la stessa persona, non è nemmeno qualcuno di completamente differente. Quindi, le rinascite si situano esattamente in questo, che non è né identico, né diverso, ma che è il seguito di una catena.
 
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- Volevo avere un chiarimento a proposito dei precetti. Si sente parlare dei precetti solo nel momento dell’ordinazione, questa è la mia esperienza.
 
- Adesso abbiamo istituito la cerimonia di Ryaku futatsu, ma non è ancora tradotta in italiano. Quindi bisogna tradurla e la si farà a Ghigo, quando ci sono le ordinazioni, o un’altra volta. Comunque è sbagliato parlare dei precetti solamente al momento dell’ordinazione. E’ bene parlarne. Dico questo per tutte le persone che insegnano nei dojo.
 
- La mia domanda era questa: premesso che viene data una risposta giusta quando si dice che nello zazen vengono sostanzialmente realizzati i precetti, ma qual è l’atteggiamento che un praticante e ancora di più le persone ordinate, devono avere verso i precetti.
 
- Per me è considerare i precetti come l’espressione del risveglio del Buddha e per ognuno di noi di cercare di ritornare costantemente all’origine di questo risveglio, cioè praticare lo zazen mushotoku, senza scopo egoista, senza scopo per noi stessi, e abbandonando completamente il nostro egoismo nella pratica di zazen, shinjin datsu raku, abbandonare l’ego nello zazen. Se pratichiamo questo, con questo spirito che ci ispira nella nostra vita quotidiana, si rispettano naturalmente i precetti. Il problema è che siamo condizionati da un karma passato, da molti bonno,e non siamo sempre in armonia con questo spirito di zazen. Allora, quando ci rendiamo conto che il nostro spirito lascia questa armonia a causa di certe emozioni, di certi fenomeni, allora è bene ricordarsi i precetti, chiaramente, e in ogni caso il precetto che corrisponde alla situazione del momento. Certamente, in qualche caso il precetto può essere un divieto: non bisogna fare così, non uccidere, non rubare, non mentire, non intossicarsi. E’ bene ricordarselo quando si è al bar, per non uscire completamente ubriachi. Ma quello che bisogna fare, innanzitutto, è ricordarsi la radice, il principio di questi precetti. Ovviamente, se consideriamo i precetti solo come dei divieti, si può arrivare al punto che non si amano più i precetti, si avrà la tendenza a considerare che i precetti non sono la libertà, sono un intralcio. In effetti, ciò disturba solo il nostro ego, ma aiuta la nostra natura di buddha a manifestarsi. Quindi, se si ha bodaishin, lo spirito del risveglio, e se si vuole vivere in armonia con la natura di buddha, si amano i precetti, li si considera come dei buoni consigli del Buddha, l’espressione del suo risveglio e si ha voglia di rispettarli naturalmente.
 
Questo risponde alla tua domanda?
 
- Sì.
 
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- Come facciamo a considerare mushotoku il processo di guarigione di una malattia? Non solo da parte di un medico, ma soprattutto da parte di un malato in cui tanto si enfatizza la volontà di guarire, la volontà di non ammalarsi, la volontà di stare bene.
 
- Credo che se si è malati, sia normale di voler guarire. Non volersi curare, sarebbe masochista. Questo non ha molto a che fare con mushotoku. Credo che la salute sia un dono naturale e che sia normale volerla conservare, proteggere. Non è come un profitto, qualcosa che si vuole ottenere con avidità. La nostra condizione normale e originale è di essere in buona salute e trovo che sia giusto voler conservare questa condizione normale. Ancor di più perché quando ci si ammala, spesso la malattia è il segno di un disequilibrio e quindi è bene imparare qualcosa attraverso la malattia. Risvegliarsi a partire dalla malattia. Dirsi: “Toh, sono malato, vuol dire che ho fatto un errore, c’è un errore da qualche parte”. Quindi la malattia può essere una fonte di risveglio. Evidentemente, a volte se la malattia è troppo grave, è quasi impossibile, con i mezzi attuali, guarire e poi ci si pone il problema dell’accanimento. Ed è qui che la tua domanda ha un senso. Ad un certo punto, certamente, è meglio accettare che non siamo eterni in questa vita, bisogna pur morire un giorno e accettare di morire.
 
- Infatti stavo proprio per chiedere se ad un certo punto non c’è il rischio di un attaccamento ad un’idea di salute a tutti i costi, di vita a tutti i costi.
 
- Questo si collega alla domanda “perché siamo nati? perché siamo vivi?”. E io credo che siamo nati, che siamo vivi per risvegliarci e che quindi la salute è importante per poter praticare zazen. Ecco, è la ragione principale del perché è importante essere in buona salute. Voler proteggere la salute, è voler proteggere la possibilità di realizzare il risveglio. E’ una dimensione spirituale. Ma fa parte del risveglio anche il riconoscere che risvegliarsi all’impermanenza è accettare che il nostro ego non è eterno e quindi accettare di morire. Imparare ad accettarlo. Si può dire che è la Via del Mezzo: quando siamo malati, è normale volersi curare, ma soprattutto, dopo la malattia dirsi: “Ora ho sperimentato l’impermanenza, so che posso essere fragile, posso morire di malattia da un momento all’altro, quindi mi impegno a non perdere più il mio tempo. In quel caso, la malattia non è stata inutile. Sei medico?
 
- No, no. Malato!
 
- Ex malato! Va bene adesso?
 
- Sì, spero di sì.
 
- Allora, auguri di buona salute!

Sabato 5 aprile 2008, kusen delle 7:00

Durante zazen continuate a concentrarvi bene sulla vostra postura. Basculate bene il bacino in avanti, allungate la colonna vertebrale e la nuca. Spingete bene il cielo con la sommità del capo. Rilassate le spalle e andate fino al fondo di ogni espirazione, spingendo sulla massa addominale verso il basso. E soprattutto non seguite i pensieri. E’ ritornando regolarmente alla postura e alla respirazione che si possono lasciar passare i pensieri naturalmente. Non si deve cercare di non pensare. Durante zazen si smette ogni lotta. E’ solo così che si può realizzare lo spirito sereno del nirvâna, ritornando alla nostra condizione normale.
 
Nella vita quotidiana quando dobbiamo prendere una decisione o abbiamo un problema da risolvere, è normale pensare, ma una volta presa la decisione o risolto il problema, non è necessario continuare a pensare, mentre abitualmente la mente ha la tendenza a ruminare costantemente i pensieri. Praticare zazen è ritornare costantemente allo stato appena precedente il pensiero. Si osservano i pensieri che sorgono di istante in istante e, ritornando alla postura e alla respirazione, li si lascia immediatamente passare. Se non riusciamo a lasciarli passare immediatamente, è meglio non arrabbiarsi con se stessi. Constatare semplicemente tutto ciò, e lasciar passare.
 
Zazen è hishiryô. Hi vuol dire al di là di ogni pensiero, vuol dire non aderire ai pensieri. Questo non può realizzarsi che nell’istante, non possiamo avere l’intenzione di lasciar passare, poiché questo è ancora un pensiero a cui ci si attacca. Se abbiamo un progetto simile durante zazen, zazen rischia di diventare una sorta di lotta con se stessi. E’ come gettare dell’olio sul fuoco per spegnerlo, e si arriva a un risultato esattamente opposto. Affinché zazen sia autenticamente liberazione e sia il ritorno a uno spirito pacificato, abbandoniamo ogni intenzione, ci accontentiamo di essere semplicemente seduti. In altre parole, zazen è la pratica minimalista. In zazen non facciamo più nulla. Ci accontentiamo di lasciar cadere tutte le nostre fabbricazioni mentali. Non rifiutarle, solamente lasciarle cadere senza intrattenerle. Questo vuol dire avere una fede profonda. Ciò che desideriamo realizzare è già qui, noi siamo già Buddha: non disturbiamolo.

Sabato 5 aprile 2008, kusen delle 11:00

Durante zazen, concentratevi a essere solamente, pienamente seduti, totalmente in unità con la postura di zazen. Una postura stabile, equilibrata, senza tensioni né rilassamenti. Il corpo completamente esteso tra cielo e terra e il ventre disteso. La pratica di zazen è una pratica di liberazione, liberazione da ciò che è la causa della nostra sofferenza. Cioè di non essere in armonia con la realtà così com’è, con il Dharma. Non si tratta di diventare qualcosa o qualcun’altro rispetto a ciò che siamo.
 
Il Maestro Dôgen diceva che la pratica del Dharma del Buddha consiste nell’imparare a conoscere se stessi, cioè a diventare completamente intimi con se stessi. Affinché questa autentica intimità si realizzi, occorre abbandonare lo spirito che crea separazioni. Appena pensiamo consciamente e utilizziamo dei concetti, delle parole, immediatamente si crea in noi una separazione. Per esempio, conoscere se stessi. Ciò presuppone che ci sia una coscienza che cerca di conoscere e qualcosa da conoscere. Un soggetto che pratica e un oggetto della pratica. Non appena entriamo in questo processo, la pratica diventa difficile perché creiamo le condizioni della nostra non-realizzazione, cominciamo a creare una separazione là dove non c’è.
 
Come faceva notare il Maestro Menzan, “i nostri occhi non possono vedere se stessi”. In zazen, se cerchiamo di conoscere noi stessi, finiamo per realizzare che questo ‘noi stessi’ è inafferrabile. Allora è meglio realizzarlo rapidamente, così da non sprecare i nostri sforzi, la nostra energia ad afferrare qualcosa che è inafferrabile. ‘Noi stessi’ che pratichiamo zazen, e zazen,che non è mai separato da ‘noi stessi’ che pratichiamo. E anche ‘noi stessi’ che viviamo, non possiamo separare la nostra vita da ‘noi stessi’. Non c’è un ‘sé’ e la vita. Il nostro modo di essere di istante in istante è la vita.
 
Divenire intimi con se stessi significa vivere pienamente ogni istante della vita, senza creare separazione, senza farsi idee a proposito di se stessi o a proposito della vita altrimenti lo spirito diventa complicato, astratto, si attacca a delle nozioni, la respirazione perde la sua fluidità. La vita è fluidità. Armonizzarsi con il Dharma è dimenticare se stessi, cioè dimenticare ogni idea a proposito di se stessi, non trattarsi più come oggetti, oggetti di pensiero, oggetti di osservazione. Dimenticare se stessi, dimenticare ogni nozione a proposito di sé, è liberare autenticamente se stessi, liberare la creatività della vita di ogni momento, non ripetere sempre lo stesso karma. Ogni istante è diverso. Ma spesso non lo vediamo, perché guardiamo la vita di ogni istante attraverso le lenti colorate del nostro karma passato. Praticare autenticamente zazen è lasciar cadere queste lenti colorate, è spogliarsi di tutto ciò che ci ingombra, è vedere che non c’è nulla da aggiungere. Così come siamo va bene, nulla da aggiungere, nulla da togliere.
 
Se pratichiamo così, se pratichiamo questo, la pratica stessa diventa istantaneamente una grande liberazione, una riconciliazione con quello che siamo già al fondo di noi stessi, degli esseri in unità con tutto l’universo, al di là dell’eccesso come della mancanza. Come un’onda sulla superficie dell’oceano, a un tempo sé stessa e non separata dall’oceano, solamente una forma momentanea presa dall’ordine cosmico. Se ci vediamo così, non c’è più bisogno di essere invidiosi, gelosi, ambiziosi, di colpevolizzarci, di confrontarci continuamente con gli altri, di confrontare noi stessi con un ideale, una tortura che ci fa soffrire, che ci impedisce di riconoscerci così come siamo qui e ora, Risvegliarsi al Dharma è riconciliarsi con se stessi, fare pace immediatamente. Ed è ciò che zazen ci propone costantemente di realizzare. Allora, accogliamo questa proposta.

Sabato 5 aprile 2008, mondô

- La mia domanda è: come andare al di là se non si può più!
 
- Dipende al di là di che cosa.
 
- Durante la riunione, per esempio, si parlava di superare i propri limiti, andare più lontano, e credo che sia in contraddizione con il non far ricorso alla volontà, perché andare al di là, superare i propri limiti, significa sforzarsi.
 
- Io penso che spesso andare al di là e superare i propri limiti non sia questione di volontà ma, al contrario, questione di lasciare la presa. Liberarsi da un attaccamento, abbandonare qualcosa, ritrovare più disponibilità, più libertà: questo non si può realizzarlo veramente con la volontà. Quando vogliamo progredire con la volontà, la pratica ha la tendenza a diventare un conflitto, una lotta interiore. Da un lato è vero che c’è lo spirito che cerca di realizzare la Via, di realizzare il risveglio, e dall’altro ci sono tutte le nostre vecchie abitudini, ciò che chiamiamo l’ego, in generale, i condizionamenti, che oppongono una certa resistenza a questa aspirazione. Ma non sono del tutto sicuro che la volontà possa risolvere questo conflitto. Essa ha piuttosto la tendenza a gettare olio sul fuoco. Allora, spesso è meglio osservare ciò che succede, rendersi conto dell’illusione in cui siamo presi e lasciar cadere l’attaccamento all’illusione, attraverso la lucidità, la comprensione, più che con la volontà. Perché spesso, con la volontà, manteniamo le difficoltà. Se vogliamo interrompere una resistenza con la volontà, l’ego che resiste tende ad aumentare la sua resistenza. Se comprendiamo che questo ego non ha fondamento, che le sue resistenze sono completamente illusorie e solamente causa di sofferenza, allora c’è qualcosa che si dissolve, da solo. Qualcosa che crediamo essere molto importante e che, ad esempio, ci impedisce di praticare zazen: se guardiamo bene, è veramente così importante? Se dovessimo morire domani, sarebbe ancora così importante? E’ un esempio. Sicuramente no. Quindi, è un po’ cambiare di prospettiva. E questo richiede intuizione, richiede profondità di vedute. A volte ci vuole comunque la volontà, anche solo per alzarsi la mattina, per venire a fare zazen, bisogna ricordarsi la propria decisione di venire e non cedere alla facilità di restare a letto. Certamente, è necessaria la volontà, in particolare per la regolarità della pratica. Ma non è sufficiente e persino, a volte, può provocare un effetto perverso perché se riusciamo a praticare con la nostra volontà, si ha la tendenza a praticare con un certo orgoglio, con una certa superiorità: “Io ho volontà, io sono capace di andare al di là”. Poiché la volontà viene dall’ego, tutto quello che facciamo con la volontà rischia di sviluppare questo ego. A volte è utile, bisogna utilizzarla, ma bisogna fare attenzione perché si rischia di intrappolarsi. E non dobbiamo mai dimenticare che la pratica della Via è una pratica di liberazione e non possiamo liberarci solamente con la volontà. E’ molto meglio liberarsi con la comprensione, la lucidità che permette di rimettere in questione le proprie illusioni, i propri errori in modo tale che tutto il nostro essere vada poi nella stessa direzione, che non ci sia più conflitto tra una parte che vuole andare avanti e una parte che vuole resistere.
 
- C’è differenza tra questa resistenza dell’ego e le mie contratture nel corpo in zazen?
 
- A volte sono queste resistenze dell’ego che si traducono nel corpo, capita, soprattutto se non se ne è coscienti. Se si vede chiaramente il gioco dell’ego, allora c’è meno rischio che questo diventi psicosomatico, che si traduca nel corpo. Ma se non si vede chiaramente cosa succede in noi stessi, allora le resistenza che non possono essere considerate coscientemente, si esprimono in un altro modo e principalmente attraverso il corpo. Questo è la causa di molte malattie, di tensioni. Quindi, bisogna innanzitutto sviluppare la coscienza, sviluppare la lucidità, la capacità di vedere ciò che succede veramente.
 
- Io parlavo, prima di parlare degli effetti psicosomatici, semplicemente dei nodi che ho nel corpo.
 
- Sì, sì, ma è l’inizio. I nodi sono l’inizio, impediscono all’energia di circolare correttamente e poi si possono trasformare in malattia. E’ lo stesso principio delle malattie psicosomatiche, cioè che c’è un conflitto, che produce tensioni, che cerca di attirare la nostra attenzione sul fatto che c’è qualcosa che non va. E se non prendiamo coscienza di ciò che non va, allora le tensioni rischiano di aumentare e di sfociare in una malattia. Bisogna sempre chiedersi: “Ma cosa succede?”
 
- Appunto, ma come ce lo si chiede? Perché se ce lo chiediamo con la mente, non è molto efficace. La mia domande è proprio questa: vedo quello che succede, sento cosa succede a livello corporeo. E poi, rilassando, rilasciando le resistenze, senza pensare, di colpo ho risolto quello che non funzionava.
 
- Penso che ci vogliano tutt’e due. Per esempio, se abbiamo delle tensioni, questo è legato a un karma, a qualcosa che succede e si può andare a farsi fare dei massaggi, fare del rilassamento. Ma possiamo anche distenderci in zazen. Ma non risolve la causa, risolve solo l’effetto. Certo, può servire a interrompere il circolo vizioso: se non siamo risvegliati, il circolo vizioso comincia qui. Se non siamo risvegliati, non viviamo in armonia con l’ordine cosmico, con il Dharma, si avrà la tendenza a essere troppo egocentrici, si creerà della sofferenza, per noi, per gli altri. Ci si può eventualmente dire che c’è qualcosa che non funziona nella propria vita, ci si propone di praticare zazen e forse ci si impegna nella pratica della Via. Ma in questo tipo di pratica, può succedere che se non si esercita la propria lucidità, non ci si rende conto che nella pratica si stanno riproducendo gli stessi schemi, gli stessi fenomeni che fanno sì che non siamo in armonia con il Dharma. Allora, crediamo di praticare la Via, ma in realtà nella Via riproduciamo uno schema che è uno schema dualistico, uno schema che provoca conflitti e tensioni. E’ vero che se riusciamo a distenderci, a respirare meglio, questo ci darà un po’ di spazio, forse, e rischiarerà un po’ lo spirito e aiuterà la comprensione. Ma se non c’è comprensione, se non c’è risveglio, resta solo come una cura palliativa, un sollievo, l’arrivare a distenderci ma la tensione ricomparirà prima o poi se la radice non sarà troncata. E’ quindi bene arrivare a trovare un equilibrio a livello corporeo, arrivare a cancellare le tensioni prodotte dal karma ma, e questa è proprio la base dello Zen, come è detto in particolare nello Shôdôka: “Non bisogna preoccuparsi solo di tagliare i rami e le foglie, bisogna veramente troncare la radice”. Questo è un insegnamento fondamentale dello Zen. Quindi, trattare solamente le tensioni corporali, per me significa solo tagliare i rami e le foglie.
 
- Ma in zazen non si pensa, si ritorna sempre al corpo.
 
- Sì, si ritorna al corpo ma allo stesso tempo in zazen si può osservare quello che succede anche a livello del pensiero. Si osserva il corpo e si osserva lo spirito. Quello che non bisogna fare in zazen è entrare in un processo analitico, cominciare a riflettere sui propri pensieri, sulle proprie sensazioni, sulle proprie percezioni e lavorare troppo con il mentale. In zazen, raccomando sempre di ritornare al corpo, a livello della concentrazione, perché il fatto di ritornare al corpo permette di lasciare la presa da qualcosa che ci ossessiona, una sofferenza psichica, un problema, un’ossessione. Permette di lasciar passare. Ma anche questo non è sufficiente. A volte ci sono cose che non passano e quindi bisogna praticare anche l’osservazione.
 
Il Maestro Deshimaru l’ha ben insegnato in un certo periodo del suo insegnamento. All’incirca dieci anni dopo che insegnava in Europa, ha detto: “Fino ad ora ho sempre insegnato la concentrazione, - me lo ricordo perché ero il traduttore del suo kusen - ma la concentrazione da sola non basta: bisogna anche osservare”. Se c’è solo la concentrazione, non è equilibrato, ci vuole anche l’osservazione. E a partire da quel momento ha costantemente insegnato l’equilibrio tra concentrazione e osservazione. La concentrazione chiarifica lo spirito, ma quando lo spirito è chiarificato, questo ci permette di osservare più chiaramente quello che succede. E quindi di comprendere noi stessi più profondamente. Ma se non c’è questa comprensione, vuole dire che zazen ci dà sollievo per un momento, e durante questo momento di zazen siamo ben concentrati, non pensiamo più alle preoccupazioni della vita quotidiana, ai nostri attaccamenti, a tutto ciò che ci fa eventualmente soffrire. Ma una volta terminato zazen, e ritrovati i fenomeni della vita, ci si ritrova ad aver a che fare con le stesse difficoltà. Quindi è importante osservare che cosa ha creato queste difficoltà, qual è l’attaccamento a questo ego che provoca tutte queste difficoltà. In altre parole, la concentrazione permette di prendere un po’ di distanza per vedere meglio che cosa accade. Ma se non vediamo cosa accade, la pratica è solo una cura palliativa, non tronca la radice.
 
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- Alla mia domanda è già stato risposto in qualche modo con le risposte precedenti. Dato che comunque considero zazen un’opportunità per poterci comprendere meglio, però nei tuoi kusen continui a suggerirci di lasciare andare, di non aderire ai nostri pensieri. E quindi chiedo in quale parte dobbiamo cercare di comprenderci veramente se non proprio nella pratica stessa di zazen.
 
- Dipende da cosa si intende con ‘comprendere sé stessi’.
 
- Le nostre emozioni, le nostre sensazioni che durante zazen inevitabilmente sorgono. Durante la vita di tutti i giorni questi impulsi sembrano essere incontrollabili, apparentemente incontrollabili e quindi li subiamo.
 
- Se durante zazen ci sono dei fenomeni così, delle emozioni, degli impulsi, è bene osservarli, ma osservarli rapidamente, sviluppare la capacità di vedere velocemente cosa sta succedendo, e di non restare con questo. E’ questione di intuizione e di rapidità. Se succede qualcosa, rapidamente me ne accorgo e lascio passare. Ma non resto a lungo ad analizzare, a riflettere. Invece dopo zazen è possibile, nel caso avessimo scoperto qualcosa, o fosse apparso qualcosa di grave e di importante durante zazen, se avete visto qualcosa è del tutto possibile riflettere dopo zazen. Non bisogna riflettere troppo durante zazen. Solamente notare cosa succede.
 
Ma innanzitutto, la comprensione di cui stiamo parlando durante zazen, non è tanto la comprensione di tutto il nostro karma, di tutti i nostri condizionamenti, ma quando parlo di comprensione voglio parlare soprattutto di comprensione della vacuità del nostro ego. E’ questo che recide la radice, perché altrimenti la comprensione di sé non può portare a sgonfiare l’ego ma al contrario a giustificarsi e a dirsi: “Ah si, con la mia storia, con la vita che ho, è normale che io abbia questo genere di reazioni”, e in questo caso la comprensione non fa che aggiungere delle complicazioni dello spirito, non fa che rafforzare l’ego.
 
E’ molto importante comprendere questo. Nella pratica di zazen sono due i livelli di comprensione: o comprendiamo a livello dei fenomeni, che è la comprensione ordinaria, cioè la concatenazione delle cause e degli effetti: “Ah sì, succede questo, che è a causa di questo, ecc.”. Comprendiamo l’interdipendenza. E’ un primo livello di comprensione. E’ questo che generalmente le persone chiamano ‘comprendere sé stessi’. Questo procedimento non ha fine, c’è sempre la causa della causa e poiché tutto è interdipendente, si passa tutta la propria vita a fare un’auto-analisi interminabile. Del resto, la psicanalisi spesso porta a questo. E si diventa sempre più complicati e soprattutto questo serve a giustificarsi: “Sono così perché ..., per questa e quella ragione, quindi è normale che io sia così”.
 
Invece zazen deve insegnarci ad avere un altro punto di vista, completamente differente. Non il punto di vista dell’ego. E’ come guardare la propria vita dalla cima di una montagna. Si prende spesso questa immagine a proposito di zazen. Cambiare punto di vista e prendere il punto di vista di ku, della vacuità, un punto di vista vasto nel quale ci si distacca dai vincoli del karma, della vita quotidiana. E prendendo distanza, ci si accorge che tutto ciò non ha sostanza. E’ solo il nostro attaccamento che fa in modo che acquisti di importanza e che diventi un grosso problema. Capisci? Prendere distanza, guardare diversamente, e vedere che ciò che ci preoccupa, in fondo non ha una realtà stabile, è qualcosa senza sostanza.
 
Questo non vuol dire che dopo, a livello fenomenico, dei fenomeni non bisogna prendere delle decisioni per risolvere alcuni problemi. Ma se siamo stati capaci di distaccarci, di vedere le cose da un’altra angolatura, questo permette di uscire dall’ingranaggio.
 
D’accordo?
 
- Sì, mi è più chiaro.

Domenica 6 aprile 2008, kusen delle 7:00

Per praticare zazen, ritorniamo costantemente ai punti importanti della pratica. Ci concentriamo sulla postura del corpo, spingendo il cielo con la testa, la terra con le ginocchia. Siamo attenti alla respirazione. Distendendo il ventre, andiamo fino al fondo di ogni espirazione. Osserviamo i pensieri che sorgono di istante in istante e non li afferriamo, li lasciamo passare e ritorniamo costantemente a uno stato dello spirito libero da ogni oggetto. Ciò vuol dire che anche la postura non deve diventare un oggetto, che la nostra pratica non è volontaristica. Una pratica volontaristica è una pratica con molta tensione, una pratica in cui siamo perpetuamente in lotta. Il motore della nostra pratica non è la volontà, ma la fede. La fede nel fatto che siamo già ciò che aspiriamo a diventare, che zazen non produce nulla e non serve a nulla. Zazen non è uno strumento, non possiamo strumentalizzare la pratica. Zazen è una celebrazione, la celebrazione del risveglio originale di tutti gli esseri, che si manifesta qui e ora, nella pratica giusta. Allora, evidentemente, la domanda è: come praticare in modo giusto per non pervertire il senso della pratica, per non andare nella direzione opposta.
 
Nella vita quotidiana noi siamo, per la maggior parte del tempo, condizionati dalla tecnica poiché per sopravvivere gli esseri umani hanno bisogno di divenire padroni del mondo e della natura. Quindi si utilizza la propria mente per manipolare le cose, gli oggetti, per renderli utili al nostro ego, per poterli consumare. Fino a un certo punto ciò è del tutto normale. E’ la differenza tra le società umane e le società animali, sebbene anche gli animali abbiano la loro tecnica. Il problema dell’essere umano è che ha ipertrofizzato questa funzione del suo ego, che ha invaso tutte le sue attività, tutte il suo modo di essere. E’ un modo di pensare, un modo di essere nella dualità. Ci si identifica a un ego, a un sé, che si è costruito mentalmente per differenziazione e separazione dall’ambiente. Anche se questo ego non è mai separato né indipendente dal suo ambiente, cerca di fare come se fosse autonomo. D’un tratto, l’autentica dimensione religiosa della nostra esistenza è persa, dimenticata, non anima più il nostro modo di essere nella vita. Il senso della pratica di zazen è di ritrovare questo spirito religioso fondamentale, che non è semplice credenza in un Dio creatore, in una vita dopo la morte, ma piuttosto l’esperienza della vita senza separazione. E la pratica di zazen è l’occasione di sperimentare questo, sperimentare la dimensione ultima dell’esistenza. Anche se nella dimensione relativa, certamente, ci sono delle separazioni e differenze, ma non c’è solo questo. Zazen ci riporta alla dimensione fondamentale, a condizione che sia praticato nel modo giusto e non pervertito dallo spirito della tecnica.
 
E’ il cuore stesso dell’insegnamento del Maestro Menzan nell’opera che si chiama Jijuyu Zanmai e a cui mi sono ispirato fin dall’inizio di questa sesshin. E lui stesso fa riferimento costantemente all’insegnamento del Maestro Dôgen vissuto due secoli prima di lui.
 
Perché Dôgen criticava i maestri di meditazione della sua epoca? Perché essi insegnavano che siamo nell’illusione, che se pratichiamo zazen, allora si potrebbe ottenere l’illuminazione come il risultato del potere accumulato nella pratica di zazen. Ed ecco lo spirito della tecnica: si investono tempo ed energia in una pratica, si accumulano meriti e si ottiene un risultato alla fine, per aver accumulato molti meriti. E quando si è raggiunto un risultato, non abbiamo nemmeno più bisogno di praticare. Come quando diventiamo ricchi e non abbiamo più bisogno di lavorare, facciamo lavorare gli altri. Se pratichiamo zazen in questo modo, siamo totalmente sfalsati perché riportiamo zazen al livello del funzionamento del nostro ego, che calcola i profitti, le perdite, che vuole investire sforzi per ottenere un certo risultato, che calcola continuamente. Funzionare in questo modo è essere letteralmente avvelenati.
 
Nell’insegnamento di Buddha si parla dei Tre Veleni: quello dell’avidità, che è il motore di questo atteggiamento, ma anche l’odio, che ne è la conseguenza, poiché naturalmente odieremo tutto ciò che disturba e impedisce la nostra avidità. Alla fine, queste emozioni di avidità e di odio oscurano la nostra visione e ci mantengono nell’ignoranza, che è il terzo veleno.
 
Il Maestro Menzan criticava le persone che praticavano così dicendo: “Essi aspirano a sbarazzarsi delle loro illusioni e a ottenere l’illuminazione”. Vogliono eliminare i loro pensieri illusori e ottenere la verità. Non è null’altro che continuare a creare il karma dell’ottenimento e del rifiuto. E’ solamente una forma di dualismo volere scappare da una cosa e perseguirne un’altra. E’ esattamente il motore del samsâra, del mondo della sofferenza. Quindi, se immaginiamo che è questo genere di pratica che è stato trasmesso dal Buddha e dai patriarchi, ci sbagliamo completamente. L’autentico zazen trasmesso fin dal Buddha è lo stato nel quale corpo e spirito dimorano in pace, nel quale il nirvâna - l’estinzione di tutte le cause di sofferenza - si realizza qui e ora, nella pratica mushotoku, senza spirito di profitto, hishiryô, al di là di ogni calcolo.
 
Praticare così, diventa celebrazione della natura di buddha, riconciliazione con se stessi, con ciò che non abbiamo mai smesso di essere al fondo di noi stessi, degli esseri in unità con tutto l’universo, al di là anche della nascita e della morte.

Domenica 6 aprile 2008, kusen delle 11:00

Praticare una sesshin è diventare intimi con il nostro autentico spirito. Non il nostro spirito ordinario, che vuole questo, non vuole quello, desidera, rifiuta. Ma quello che chiamiamo lo spirito sereno del nirvana, questo spirito che si realizza quando non ricerchiamo più nulla, quando si è pienamente in unità con il qui e ora, che include tutti i tempi, passato, presente e futuro. Tutto viene a riflettersi in questo istante di coscienza. Così, non c’è bisogno di cercare altro.
 
E’ per questo che il Maestro Menzan insisteva sul fatto che, in tutta evidenza, lo zazen non è una pratica per sbarazzarsi delle illusioni e ottenere l’illuminazione. Kodo Sawaki diceva: “Finché non potete praticare lo zazen che non serve a nulla, allora il vostro zazen non serve veramente a nulla”. Invece, praticare lo zazen che non serve a nulla, è praticare il risveglio. Tutti i meriti di zazen si realizzano a partire da uno zazen che non serve a nulla. E’ quello che il Maestro Deshimaru chiamava “i meriti infiniti di mushotoku”. Se pratichiamo zazen con questo spirito, zazen è immediatamente realizzazione e liberazione e si può continuare zazen eternamente, senza mai affaticarsi. Zazen è costantemente l’attualizzazione della natura di buddha.
 
E’ per questo che il Maestro Sekito, all’inizio del Sandôkai, ci dice: ”Lo spirito del grande saggio dell’India - cioè lo spirito di Buddha - è stato trasmesso intimamente da persona a persona, all’Est come all’Ovest”. A partire da questa esperienza, l’insegnamento dello Zen si è sviluppato e il patriarca Bodhidharma l’ha trasmesso dall’India alla Cina. Che cos’è questo insegnamento? Il Maestro Menzan ci risponde: “Questo vuol dire vivere di fronte al muro senza muoversi e vedere che gli esseri ordinari e i saggi, i buddha sono uno e del tutto simili”.
 
A questo proposito ci fu un grande mondô tra Bodhidharma e il suo discelpo Eka. Bodhidharma gli aveva insegnato questo: “Esteriormente smetti di impegnarti in ogni tipo di affare, e interiormente non ricercare nulla col tuo spirito. Quando il tuo spirito diventa come un muro, cioè liscio e senza nulla a cui ci si possa aggrappare, allora sarai capace di penetrare autenticamente la Via”. Allora Eka gli rispose: “Ma io ho già smesso di impegnarmi in tutti gli affari esteriori!” Quindi Bodhidharma gli domandò: “Ma non hai distrutto il tuo spirito?”. “No!”. Allora Bodhidharma gli disse: “Ma come lo sai?” Ed Eka gli rispose: “Sono sempre chiaramente cosciente”.
 
Praticare zazen abbandonando ogni attaccamento al corpo e allo spirito non vuol dire distruggere il proprio spirito ma permettergli al contrario di essere sempre puramente cosciente, non turbato da nulla. Questo spirito che si realizza in sesshin. Quando se ne è fatta l’esperienza, anche brevemente, questo spirito ispira la nostra vita quotidiana e possiamo ritornare ad esso spesso, ritornando alla presenza al corpo e alla respirazione e lasciando passare tutti i nostri pensieri e le nostre preoccupazioni. Anche in mezzo al mondo dei fenomeni, a volte doloroso, lo spirito sereno del nirvâna può funzionare, per il bene di tutti gli esseri.
 
Traduzione:   Franca Mondino
Annotazione: Stefano Fiorini, Paolo Pini, Maurizio Florissi, Guglielmo Capelli, Chiara Pandolfi
Revisione: Chiara Pandolfi