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L'associazione zen bodai dojo è membro dell' UBI, Unione Buddhista Italiana

 
Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
16/18 aprile 1999
Sesshin di Ghigo di Prali
diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

Bendowa del Maestro Dogen


Venerdì 16 aprile 1999, kusen delle 7:00

Durante zazen ritornate costantemente alla concentrazione sulla postura. Il centro della vostra esistenza è qui ed ora. Concentrarsi significa essere totalmente presenti a ciò che viviamo, essere unità con la pratica di ogni istante, senza lasciarsi distrarre dai nostri pensieri, senza lasciare che lo spirito fugga nell’astrazione. Tutti i pensieri a proposito del passato e del futuro, sono abbandonati. La sola cosa importante è come praticare zazen qui ed ora. Dobbiamo essere del tutto attenti a come siamo seduti: il bacino inclinato in avanti, le ginocchia che premono fortemente il suolo, il ventre rilassato, il corpo stabile come una montagna. A partire dalla vita, estendiamo la colonna vertebrale, la nuca, spingiamo il cielo con la sommità del capo. La postura è al tempo stesso radicata al suolo e slanciata verso il cielo. Con questa postura osserviamo il nostro corpo e rilassiamo tutte le tensioni, mantenendo sempre la verticalità della colonna vertebrale e il giusto tono del corpo, né troppo teso, né troppo rilassato. Non bisogna essere bloccati nella postura, ma correggere impercettibilmente il tono dei muscoli, così il corpo e lo spirito diventano unità. La coscienza è completamente presente nel corpo, in modo che possiamo percepire istantaneamente gli squilibri e correggerli. In particolare rilassate le spalle, non lasciate che il corpo cada in avanti. Il viso è rilassato, in particolare le mascelle, la lingua è posta contro il palato. Si inspira ed espira profondamente. Al momento dell’inspirazione diventiamo completamente un corpo e una mente che inspira, totale unità con l’inspirazione. Quando espiriamo, è il corpo e lo spirito in unità che espira. E’ il momento nel quale abbandoniamo ogni attaccamento. Alla fine dell’espirazione torniamo al punto zero del non pensiero. Il corpo e lo spirito possono così diventare freschi e nuovi ad ogni istante, di inspirazione in ispirazione. E’ come morire e rinascere da un istante all’altro. Morire alle vecchie storie e rinascere all’istante presente. E’ il punto essenziale della pratica di una sesshin, non riguarda solo il tempo di zazen, ma tutti i momenti della vita quotidiana: quando recitiamo i sutra, quando facciamo sanpaï, quando mangiamo la guen maï, quando facciamo samu e anche quando riposiamo. Praticare una sesshin significa imparare a sviluppare questa vigilanza di ogni istante, liberandoci delle nostre coagulazioni mentali. La parte essenziale dell’insegnamento del Buddha si realizza concretamente nella pratica stessa.
 
In questa sesshin, nel corso del kusen, commenterò alcune delle domande che sono state poste a Dogen nello Shobogenzo Bendowa, domande sempre attuali. Ad esempio, nella quarta domanda qualcuno gli chiede: “L’insegnamento della scuola Tendaï o Kegon che è stato trasmesso in Giappone, è l’insegnamento ultimo del Buddhismo Mahayana, senza parlare della scuola Shingon, trasmessa direttamente dal Buddha Vairocana, nella quale si insegna che lo spirito stesso è Buddha. Il risveglio autentico del Buddha è raggiunto in una sola seduta, senza aver bisogno di praticare a lungo. E’ certo l’insegnamento più sublime del Buddha. Allora, perché insistere soltanto sulla pratica di shikantaza?”
 
Dogen risponde: “Per un discepolo del Buddha, non si tratta di discutere sulla superiorità o sull’inferiorità di in insegnamento o di un altro, o di scegliere tra la profondità o la semplicità di un insegnamento. Dobbiamo semplicemente sapere se la pratica è autentica”. Tutti i pensieri a proposito del buddhismo, le interpretazioni inerenti al dharma del Buddha, sono come le dita che mostrano la luna, un riflesso nell’acqua del fiume. L’essenzialità della pratica del Buddha non consiste nell’attaccarsi a una dottrina, a un’interpretazione, ma nell’imparare a liberarsi dei nostri attaccamenti, diventando completamente liberi, qui ed ora. Solo la pratica può realizzare ciò, con il corpo e lo spirito in unità, non solo con il pensiero. Rientrate bene il mento e rilassate le spalle.

Venerdì 16 aprile 1999, kusen delle 11:00

Fare una sesshin in montagna, in una giornata di neve, è particolarmente appropriato per la pratica di zazen. Le montagne sono come la postura di zazen, il corpo del Buddha, completamente stabili, radicate, accolgono tutti i climi senza muoversi, le stagioni, la neve in inverno, talvolta in primavera. In primavera gli alberi si riempiono di fiori, i colori diventano vivi, ma basta una notte di neve perché tutto il paesaggio ritorni completamente bianco. Le forme, i colori, ritornano a ku, vacuità. E tuttavia non sono distrutti, esistono sempre.
 
Proprio come nella pratica di zazen, i fenomeni sorgono numerosi nel nostro spirito e ritornano alla vacuità. Istantaneamente. Quando osserviamo i nostri pensieri, possiamo vederli come non sostanza, senza attaccarci ad essi. In questo modo, rapidamente, tutto ciò che ci assilla, le preoccupazioni, le sofferenze, i bonno, diventano leggeri e cessano di invadere il nostro spirito. Possiamo ritrovare spazio ed essere ricettivi all’insegnamento delle montagne, della neve.
 
Nel Bendowa, Dogen, proprio dopo aver affermato che la cosa essenziale è concentrarsi sulla pratica autentica, dice: “Gli esseri umani sono entrati nella Via del Buddha trascinati dall’erba, dai fiori, dalle montagne e dai fiumi. Venendo dalla terra, dalle pietre, dalla sabbia, dai piccoli ciottoli, dai sassolini, hanno colto completamente l’impronta del Buddha”. Le parole vaste e profonde dell’insegnamento del Buddha sono impresse in tutte le cose della natura, un solo granello di polvere è sufficiente per far girare la ruota del dharma. La parte essenziale dell’insegnamento del Buddha non risiede nelle speculazioni, ma nell’esperienza della realtà che si manifesta in ogni cosa, ad ogni istante. I fenomeni ci mostrano ad ogni istante l’impermanenza, la trasformazione costante di ogni cosa. Tutti i fenomeni ci mostrano il loro carattere inafferrabile - anche l’essenza di un granello di polvere non può essere afferrata - e tutti i fenomeni ci mostrano la loro interdipendenza, la loro relazione con l’universo, il mondo senza separazioni.
 
E’ con questa realtà che zazen ci armonizza, al di là delle parole. Dogen aggiunge: “Proprio per questo parole quali lo spirito stesso è Buddha, non sono che il riflesso della luna sull’acqua. Esse non sono la realtà stessa, ma solo un riflesso nel nostro spirito, un tentativo di esprimere qualcosa.
 
Il cuore stesso dell’espressione sedersi, significa raggiungere il Buddha, vuole dire: giungere a Buddha è come un riflesso nello specchio. Dogen allude all’insegnamento delle diverse scuole buddiste della sua epoca, Tendaï, Shingon, che usavano questo tipo di massime. Si credeva che pensare così fosse già il risveglio. Ad esempio, se si pensa: il mio spirito stesso è Buddha, se si crede a ciò, si è risvegliati realmente. Tuttavia, tutto ciò è solo un riflesso della luna nell’acqua, una forma in uno specchio.
 
L’autentico dharma del Buddha non consiste nel credere in formule, frasi, ma significa sperimentare concretamente con il corpo e lo spirito ciò che significano. Non dobbiamo essere prigionieri delle nozioni, delle parole a proposito dell’insegnamento. Per questo motivo sia il Maestro Dogen, sia il Maestro Deshimaru insegnavano molto concretamente la pratica di zazen la Via del Buddha che permette di realizzare direttamente il risveglio, diventano uomini e donne della Via, nel senso di andare sulla Via, praticando come quando si cammina in kin hin, concentrandosi su ogni passo.
 
Per questo motivo il Maestro Dogen raccomandava, per ricevere e trasmettere l’insegnamento del Buddha, di seguire un maestro che avesse fatto l’esperienza della realizzazione, non un insegnante o un erudito che si accontenti di spiegare le parole, i concetti, perché in questo caso si tratterebbe di un cieco che guida degli altri ciechi: pericoloso! Si rischierebbe di cadere nella trappola dei concetti, invece di liberare il nostro spirito, si diventerebbe schiavi degli attaccamenti, delle concezioni.

Venerdì 16 aprile 1999, kusen delle 16:30

Spesso le persone che si impegnano nella Via hanno l’impressione che manchi loro qualcosa di fondamentale che devono ottenere. In particolare, lo zen si mostra attraente per molti, perché si parla di risveglio, di satori. Le persone, più o meno consciamente, dicono: “Deve essere questo che mi manca”. Tutto ciò consente di assegnare un nome a ciò che manca.
 
Se si pratica con questo stato d’animo, possiamo praticare per lunghi anni, fare molti sforzi, molte ricerche, senza mai raggiungere la realizzazione autentica.
 
Per questo motivo il Maestro Dogen, nel Bendowa, scriveva: “Dovete sapere che, per quanto riguarda il più alto risveglio, fondamentalmente non vi manca nulla”.
 
Anche se ne siamo provvisti da sempre, dal momento che siamo incapaci di essere in completo accordo con esso, troviamo il modo di creare ogni sorta di concezioni intellettuali, finendo col seguirle come se fossero reali. Vacilliamo così invano sella grande Via , in altre parole creiamo da soli gli ostacoli, oscurando la nostra visione. Per quanto riguarda il risveglio, si tratta di risvegliarci alla nostra vera natura, armonizzandoci con essa, perché non ci ha mai lasciato. Spesso ci comportiamo come chi crede di aver perso la testa e la cerca ovunque.
 
Dogen continua dicendo: “A causa di tutte queste concezioni intellettuali, appaiono nel cielo ogni sorta di fiori del vuoto”. Cioè, ogni sorta di illusioni. Egli include nel concetto di questi fiori del vuoto tutte le teorie buddiste fondamentali come la catena delle dodici cause interdipendenti, che causano la trasmigrazione, la teoria delle venticinque forme di esistenza, la concezione dei tre o cinque veicoli, tutte le concezioni a proposito del Buddha. Tutto questo è senza fine.
 
Buddha ha insegnato queste cose, ad esempio le dodici cause interdipendenti, proprio per mostrarci come intratteniamo il ciclo delle sofferenze e per mettervi fine. Non è sufficiente analizzare tutto ciò. Altrimenti, sarebbe come il caso del malato che ha studiato tutti i libri di medicina per ciò che riguarda la sua malattia e che evita di prendere il giusto rimedio.
 
L’autentico rimedio consiste nel praticare zazen con totale concentrazione, con uno spirito concentrato sulla postura, sulla respirazione, lasciano completamente passare tutti i pensieri. Possiamo così armonizzarci naturalmente con l’autentica condizione normale, essere in quest’istante al di là dell’eccesso come della mancanza.
 
Non è necessario aggiungere o togliere alcunché da ciò che siamo qui ed ora. Semplicemente, non dobbiamo fabbricare illusioni, ma essere seduti al di là delle illusioni, al di là del risveglio, senza preoccuparci, senza opporli, senza calcoli e secondi fini. Posiamo essere seduti del tutto a nostro agio, senza dipendere dalle regole, dalle forme, dalle concezioni particolari.
 
Praticare in questo modo ci trasporta immediatamente al di là delle trappole create dalle parole, dalle concezioni. La pratica diventa vento potente che spazza le nubi.

Venerdì 16 aprile 1999, mondo

- Recentemente ho letto una frase che diceva: “Ha fatto la prosternazione come un muro d’argilla che crolla”. E’ molto che penso a questa frase che ritengo possa essere il senso della mia pratica. Ma, come ti avevo detto all’inizio, permane la paura, come un muro. E’ la paura di abbandonare totalmente, addirittura di respirare attraverso le proprie narici. Cosa devo fare?
 
- Vuoi sapere come devi comportarti?
 
- Sì. So che devo ancora fare un passo, mi sento bloccata. So che se faccio questo nuovo passo sarà diverso.
 
- Credo tu debba abbandonare l’idea di dover abbandonare qualcosa, il pensiero che ci sia qualcosa da abbandonare, altrimenti aggiungi solo complicazioni. Voler abbandonare coscientemente è impossibile. E’ proprio la volontà di abbandonare qualcosa che si ritiene un ostacolo a diventare il vero ostacolo. Per questo, quando si pratica zazen, si pratica senza cercare di afferrare o di abbandonare alcunché. Afferrare, attaccarsi a qualcosa non è buono, ma nemmeno voler abbandonare lo è, è l’atteggiamento opposto. Non è un rimedio, perché si resta all’interno di un contesto dualistico, di lotta, che è l’opposto dell’autentica liberazione. E’ la ragione per la quale il Buddha insegna la vacuità: si tratta di capire che non c’è nulla da abbandonare, perché, in definitiva, le nostre costruzioni mentali sono vacuità. Si tratta di non alimentarle.
 
- Si tratta della realtà così com’è?
 
- Sì, ma non bisogna farne una nuova sostanza, un’entità alla quale attaccarsi.
 
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- Ogni tanto affiora in me una domanda, non sempre la stessa. E penso: quando ne avrò l’occasione, la porrò al responsabile del dojo o a Roland, quando avrò l’occasione di vederlo. Poi i giorni passano e trovo una risposta che mi soddisfa nell’insegnamento del Buddha. Mi domando se non sono presuntuosa …
 
- Sì, hai bisogno del Buddha… hai bisogno dell’insegnamento del Buddha. E’ un bene, non vedo dove sia il problema.
 
- La mancanza di confronto con le persone, non è una forma d’orgoglio?
 
- Potrebbe esserlo, ma penso che l’essenziale sia capire da soli. Questo è l’insegnamento del Buddha. Nessuno può capire al tuo posto. Dire a se stessi che voler capire da soli deriva dall’orgoglio è assurdo, perché nessuno all’infuori di te può capire. Se hai difficoltà, o dubbi, è positivo chiedere umilmente l’aiuto degli altri, ma, quale che sia quest’aiuto, solo tu puoi metterlo in pratica. L’aiuto è momentaneo, ma alla fine, la realizzazione, può essere raggiunta solo da te. Nemmeno il Buddha può fare molto, può solo darti fiducia, e avere fiducia in sé non è orgoglio. Forse è un resto di visione cristiana, che ti fa pensare in questo modo, perché nel cristianesimo nessuno può salvarsi da solo, solo Dio può salvare le creature. Questo è il punto di vista cristiano, non buddista. Nella visione buddista ogni essere ha la natura del risveglio, cioè la capacità di risvegliarsi da solo. Il Buddha, il maestro, gli insegnamenti, hanno lo scopo di darci fiducia, ma questa fiducia non è orgoglio, è fede.
 
Voglio aggiungere qualcosa. Quando pensiamo di aver capito da soli, è opportuno verificare la nostra comprensione, perché è altresì vero che abbiamo una certa tendenza a crearci da soli delle illusioni. Possiamo credere di aver capito profondamente e avere invece creato una nuova concezione, una nuova idea che può rivelarsi illusoria. Per questo nella tradizione dello zen è raccomandato di verificare la propria comprensione, non ci si può certificare da soli. In altre parole, non si incontra un maestro solo per chiedergli di illuminarci, perché lo possiamo fare solo da soli, ma lo incontriamo per verificare se abbiamo veramente capito. Nei dialoghi del Buddha vediamo questo caso prodursi spesso. Spesso i discepoli espongono qualcosa del suo insegnamento che pensano di aver capito e lui risponde: “Hai capito bene, è così”.
 
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- Quando hai parlato della realizzazione, degli insegnamenti del Buddha, hai affermato che, una volta raggiunta la realizzazione, al limite, non c’è più bisogno dell’insegnamento.
 
- Sì, certo, l’insegnamento è ciò che il Buddha definisce una zattera. Abbiamo bisogno di una zattera per passare sull’altra riva, ma una volta che l’abbiamo costruita e siamo passati sull’altra riva, continuare ad avanzare con la zattera sulle spalle sarebbe stupido. Questa immagine, legata alla pratica, potrebbe indurci in errore.
 
Comprendere l’insegnamento, non significa capire intellettualmente una verità, ma capire la pratica stessa, realizzare che pratica e realizzazione non sono separate, che l’essenza della nostra vita si manifesta nel modo in cui pratichiamo ad ogni istante. Da un istante all’altro, possiamo creare l’illusione, seguirla e cadere nell’inferno più profondo. L’istante dopo, però, possiamo prenderne coscienza, lasciar cadere e quindi liberarci. Questa è la pratica, ed è incessante.
 
Non si può dire: “Ora ci sono, ho realizzato tutto, non ho più bisogno di praticare”. Peraltro, possiamo non aver più bisogno di studiare i libri, di ascoltare raccomandazioni, ma questo non significa che non abbiamo più bisogno di fare zazen, sarebbe un errore.
 
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- Vorrei sapere ancora come usare l’intelletto nel modo giusto.
 
- Rendendoti conto che ha i suoi limiti, ma che è anche molto utile. Non sono contrario all’intelletto. Nemmeno Il Buddha e Dogen lo erano. Riflettere, cercare di capire, è molto importante. Dobbiamo però ricordare che questa comprensione intellettuale ci indica solo la direzione, come una freccia sul ciglio della strada che indica il cammino o un’etichetta sulla bottiglia che indica il contenuto. Se guardiamo solo l’etichetta, o il cartello, non è certamente come bere la bottiglia o percorrere il cammino. Sarebbe solo la contemplazione di un concetto. La Via del Buddha non è metafisica, o filosofia, o essere attaccati ai concetti, o costruire sistemi di pensiero. Si tratta di sapere come vivere qui ed ora, come praticare di conseguenza qui ed ora, in armonia con la verità qui ed ora. Non è così facile, non possiamo arrivarci solo con la comprensione intellettuale. In compenso, la pratica di zazen è la più preziosa per armonizzare la comprensione e la realizzazione concrete, in altre parole, il modo d’essere. Proprio come gasshô, la riunione, la non separazione. La comprensione intellettuale è rappresentata dalla mano destra, che corrisponde al cervello sinistro, e la mano sinistra il cervello destro. L’unità di entrambi.
 
Se non ci sono più domande, ci sarà un altro mondo domani pomeriggio.

Venerdì 16 aprile 1999, kusen delle 20:30

Durante una sesshin, zazen è il centro di tutta la pratica. Tutta la vita gravita intorno a zazen. Talvolta alcuni si stupiscono che si insista tanto sulla pratica di zazen. La quinta domanda dello Shobogenzo Bendowa tratta quest’argomento: “La concentrazione è uno dei tre insegnamenti”. Come sapete, gli insegnamenti del Buddha sono spesso raggruppati in tre grandi gruppi: i precetti, l’etica, il giusto comportamento; nell’ottuplice sentiero ciò riguarda la parola, l’azione e il modo di vita giusto.
 
Il secondo tipo di insegnamento riguarda la meditazione, la concentrazione, che nel sistema indiano è detta dyana, l’origine della parola zen.
 
C’è poi la saggezza, la comprensione. In questo caso, ciò significa che, se zazen è dyana, è semplicemente una delle tre grandi pratiche.
 
Allo stesso modo, nello zen esistono sei pratiche essenziali che sono dette le sei paramita: il dono, i precetti, la pazienza, lo sforzo, la meditazione e la saggezza.
 
Se zazen è questa meditazione, dyana è solo una tra le pratiche del bodhisattva. Allora, l’interlocutore di Dogen gli chiede: “Se lo zazen che insegnate è incluso in queste pratiche, su quali basi affermate che l’autentico dharma del Buddha è concentrato in zazen?”
 
Per rispondere, Dogen ricorda l’origine della scuola zen, che nasce in effetti da un malinteso. Quando Bodhidharma è venuto in Cina, coloro che l’avevano visto praticare per nove anni di fronte al muro hanno creduto che praticasse dyana. Hanno chiamato la scuola e tutti i suoi successori, i discepoli del dyana seduto, dunque zazen. In seguito, si è dimenticato za ed è diventata scuola zen. In realtà Bodhidharma non praticava il dyana, zazen non era uno tra gli otto esercizi spirituali dell’ottuplice sentiero, né una delle sei pratiche del bodhisattva. Tanto meno era una tecnica o un esercizio spirituale, bensì il ritorno alla pratica originale del Buddha Shakyamuni, prima ancora che fosse questione delle sei paramita o dell’ottuplice sentiero.
 
Bodhidharma praticava lo zazen che era all’origine di tutti gli insegnamenti del Buddha, la pratica che era il risveglio stesso, l’origine di tutte le altre pratiche.
 
Quando, sul Picco degli Avvoltoi, il Buddha ha smesso di predicare, ha preso semplicemente un fiore tra le dita e l’ha fatto girare. In quel momento ha trasmesso l’essenza del suo insegnamento a Mahakashyapa. Non ha trasmesso i sei precetti, l’ottuplice sentiero, o una tecnica di meditazione. Ha trasmesso lo Shobogenzo nehan myoshin, l’occhio del tesoro dell’autentica Via ed il meraviglioso spirito del nirvana. E’ quanto si realizza ed attualizza nel momento in cui pratichiamo zazen al di là di ogni esercizio, di ogni tecnica di meditazione. E’ la pratica che diventa istantaneamente realizzazione.

Sabato 17 aprile 1999, kusen delle 7:00

Durante zazen continuate a concentrarvi sulla postura. Non lasciate che il vostro corpo cada in avanti, concentratevi bene sulla verticalità della schiena. La postura non deve essere né troppo tesa, né troppo rilassata. Quando la postura è in equilibrio, la respirazione diventa calma e si approfondisce. Invece di seguire i pensieri, seguiamo la respirazione, cercando di andare sino al fondo dell’espirazione. Lo spirito diventa chiaro, l’agitazione mentale si calma e possiamo lasciar passare i pensieri. Le emozioni si calmano e possiamo ritrovare in noi stessi uno spazio libero, al di là di tutti i nostri condizionamenti.
 
Nella sesta domanda del Bendowa è chiesto come mai i buddisti preconizzano zazen concentrandosi solo sulla postura seduta, tra le quattro possibili, che sono: camminare, stare in piedi, stare sdraiati ed essere seduti. Se si è sdraiati, ci si addormenta. Se si rimane in piedi, si è presto stanchi. La postura seduta è la migliore per praticare a lungo la concentrazione e l’osservazione. Evidentemente, ciò non significa che esiste solo la postura seduta. A partire da zazen, tutte le altre posture, come ad esempio la marcia in kin hin, il modo con cui ci sdraiamo per riposarci, sono anch’esse la pratica dello zen. E’ la stessa cosa anche per le posture della vita quotidiana, sia per le differenti pratiche dell’ottuplice sentiero o delle sei paramita. Questo non significa che tutte le posture o tutte le pratiche non siano l’occasione di praticare la Via, ma semplicemente che zazen è l’origine, e non è limitato alla postura seduta.
 
Per rispondere a questa domanda Dogen si riferisce alla tradizione. Spesso, nelle risposte del Bendowa, Dogen si riferisce alla tradizione. In sostanza risponde che si è fatto così, perché tutti i Buddha hanno fatto così. Per gli occidentali questo genere di risposta non è soddisfacente, abbiamo bisogno di motivi, di ragioni. Il Maestro Deshimaru ha lungamente spiegato le ragioni per cui zazen è la buona pratica. Tutte queste ragioni sono incluse nel fatto che i Buddha e i maestri della trasmissione l’hanno praticato. Dogen aggiunge che i patriarchi hanno espresso ciò ricordando che zazen stesso è la porta del Dharma, del riposo e della gioia, in altre parole della pace del nirvana. Grazie a zazen tutti i nostri veleni sono abbandonati, l’ignoranza dissipata, rischiarata, e soprattutto abbandoniamo l’avidità, la tendenza a voler sempre afferrare, ottenere qualcosa. Abbandoniamo ugualmente l’atteggiamento di rifiuto, l’odio, e non ci attacchiamo nemmeno alla pace, alla gioia della pratica, al nirvana, e non detestiamo le illusioni che appaiono, le ombre che sorgono, ci accontentiamo di illuminarle, di rischiararle, a partire dalla coscienza hishiryo di zazen, coscienza che è al di là di ogni giudizio, di ogni pensiero, che riflette ogni cosa così com’è, semplicemente così com’è.
 
Tra le quattro posture, la postura di zazen è quella della gioia, nella quale il corpo e lo spirito possono diventare leggeri. Questa non è la pratica di pochi, ma di tutti i patriarchi e i maestri della trasmissione.
 
Rientrate bene il mento, tendete la nuca e rilassate le spalle. Espirate profondamente.

Sabato 17 aprile 1999, kusen delle 11:00

Ieri, durante il mondo, qualcuno ha chiesto: “Quando si è compreso l’insegnamento, si ha ancora bisogno dell’insegnamento?”
 
Ciò di cui abbiamo sempre bisogno è di praticare l’insegnamento. Non è sufficiente comprenderlo con la testa. Viverlo, incarnarlo attraverso il proprio corpo e il proprio spirito è il senso della Via del Buddha.
 
E’ l’argomento della settima domanda del Bendowa, che riguarda la pratica di zazen: “Coloro che non hanno ancora realizzato in sé il Dharma del Buddha, possono raggiungere la realizzazione della Via in zazen? E per coloro che hanno già realizzato l’autentico Dharma del Buddha, quale utilità c’è nel praticare zazen?”
 
Anche se questa domanda può sembrare un po’ stupida, bisogna ricordare che a quel tempo esistevano molti sedicenti maestri secondo i quali la pratica di zazen era per i principianti e, ancora oggi, in certi gruppi zen il godo rimane nella sua stanza, fa dei mondo e non pratica zazen con gli altri.
 
Ci sono anche discepoli che praticano zazen di tanto in tento, si fanno ordinare bodhisattva, poi monaci o monache, e hanno subito l’impressione di aver capito la Via del Buddha, ritenendo così di non dover più praticare.
 
Dogen è scioccato da questa domanda e risponde: “Anche se si dice che non bisogna raccontare dei sogni ai pazzi, né affidare dei remi a un boscaiolo, voglio comunque rispondervi”. E aggiunge: “Pensare che la pratica e la realizzazione non sono una cosa sola, è una visione del tutto erronea”. Nel Dharma del Buddha, nell’insegnamento del Buddha, pratica e realizzazione sono identiche, perché realizzare significa comprendere, risvegliarsi, ma comprendere con tutto il proprio essere, non solo con la testa, e dunque attualizzare questa comprensione. La pratica nella quale questa comprensione si realizza direttamente è zazen, lo zazen praticato senza spirito di separazione, cioè senza fare di zazen uno strumento per raggiungere la realizzazione, senza utilizzare zazen, abbandonando lo spirito utilitaristico, lo spirito che manipola ogni cosa per i propri fini egoistici. Si tratta di abbandonare l’avidità nell’istante stesso, abbandonando lo spirito di ottenimento dell’ego ed armonizzandoci con il Dharma. Non è un sacrificio, non è una rinuncia, ma un’autentica rivoluzione spirituale, una vera emancipazione. E’ il merito della pratica mushotoku.
 
Dogen continua dicendo: “Dal momento che la vostra attuale pratica è la pratica della realizzazione, la vostra pratica iniziale è in se stessa la totalità della realizzazione”.
 
Una sola pratica di zazen praticata da un principiante, se praticata con spirito mushotoku, al di là di ogni oggetto, è già in sé armonizzarsi con la realizzazione, con il risveglio, con la realtà che esiste da sempre.
 
Quando si parla della realtà così com’è, come ad esempio ieri nel mondo, non si tratta di qualcosa di misterioso o esoterico, è il contrario dell’esoterico, è ciò che non è mai nascosto, ciò che tutti gli esseri della natura manifestano continuamente, di essere, cioè, totalmente impermanenti, senza ego, senza sostanza, senza separazione nei confronti di tutto l’universo. Significa, al tempo stesso, essere totalmente unici nella propria posizione presente.
 
Finché rifiutiamo questa realtà, finché la ignoriamo, finché non ci armonizziamo con essa, la vita è dukka, insoddisfacente, causa di sofferenza. Se riconosciamo questa realtà, se l’accettiamo, se ci armonizziamo volentieri con essa diventando solidali con tutte le esistenze, abbandonando tutti i piccoli attaccamenti egoistici, allora questa realtà diventa il risveglio, il nirvana vivente.
 
Ciò che tutte le religioni ricercano nel cielo, nell’aldilà, è nel nostro corpo e nel nostro spirito, qui ed ora. Il regno dei cieli è in noi stessi, nel momento in cui abbandoniamo la nostra visione limitata e ci armonizziamo con il Dharma, con l’ordine cosmico. Ciò si realizza nell’unità della pratica e della realizzazione. Se comprendiamo ciò, allora desideriamo continuare a praticare, perché questa pratica-realizzazione è infinita, eterna. Dogen aggiunge che sia Shakyamuni Buddha sia Mahakashyapa sono stati utilizzati da questa pratica nella realizzazione. Bodhidharma, il sesto patriarca Eno, furono trascinati allo stesso modo, come sconvolti dalla pratica della realizzazione, la loro vita intera è diventata un essere al servizio della Via, e non un utilizzo della Via per se stessi. In quel momento la Via diventa autenticamente infinita ed eterna, non si lascia ridurre a qualche manipolazione del nostro ego. Seguire la dimensione della pratica-realizzazione è il senso del diventare autentici bodhisattva, monaci o monache.

Sabato 17 aprile 1999, kusen delle 16:30

La risposta del Maestro Dogen alla settima domanda del Bendowa incarna il cuore, l’essenza della nostra pratica, ciò che l’ha fatta qualificare come pratica del risveglio immediato.
 
Risveglio immediato non significa un’illuminazione improvvisa, come qualcosa che ci cade addosso dal cielo, o come una rivelazione interiore. Non si tratta di un avvenimento, ma semplicemente del ritorno alla nostra autentica condizione normale. Ciò significa che siamo ciò che pratichiamo, istante dopo istante. Nell’istante in cui pratichiamo zazen, al di là di ogni spirito di ottenimento, al di là del voler afferrare o respingere qualche cosa, al di là di ogni calcolo, questo zazen diventa immediatamente la realizzazione della libertà autentica.
 
E’ una trasmissione da se stessi a se stessi, poiché nessun altro al di fuori di noi può realizzare ciò. Qualcun altro ci può indicare la direzione, insegnare la pratica, ma la possiamo realizzare solo da noi, così come possiamo conoscere il gusto e la temperatura dell’acqua solo bevendola da soli.
 
Per realizzare ciò è essenziale abbandonare la presa nella pratica stessa di zazen. Una volta entrati nella pratica, una volta assunto la postura, calmate le agitazioni della mente, approfondita la respirazione, non facciamo più nulla. Zazen continua al di là della nostra volontà, non come un esercizio. Dogen insisteva dicendo: “Dovete sapere che, per non macchiare questa realizzazione che è inseparabile dalla pratica, i buddha e i patriarchi hanno insegnato senza sosta che non dobbiamo indebolire o diminuire la nostra pratica, facendone qualcosa di limitato”.
 
Per illustrare quest’insegnamento il Maestro Dogen racconta che, quando si trovava in Cina, aveva visto numerosi monasteri zen in cui vivevano tra i cinquecento e i duemila monaci, che praticavano zazen ogni giorno.
 
Quando chiese agli abati di quei monasteri di indicargli l’essenza del buddhismo, essi gli risposero: “La pratica e la realizzazione non sono due tappe”: Per questa ragione Dogen ha dedicato tutta la sua vita a insegnare ciò, raccomandando la pratica a tutti, ai principianti, ma anche ai monaci risvegliati. Egli cita la celebre frase del maestro Nangaku che rispose al Maestro Eno: “Non è che non ci sia pratica o realizzazione, ma non dobbiamo macchiarle”. Non dobbiamo separarle, opporle.
 
Ottava domanda: “Perché i maestri che hanno trasmesso il buddhismo nel passato nel nostro paese (cioè Kukai e Saicho, che introdussero la scuola Shingon e Tendaï), quando sono andati in Cina, diventando coloro che trasmettevano il dharma, hanno trasmesso solo la dottrina, ignorando zazen?”
 
Il Maestro Dogen: “I maestri del passato non hanno trasmesso il Dharma - zazen - perché non era ancora il momento”.
 
Nona domanda: “I maestri di un tempo hanno compreso questo Dharma - zazen?”
 
Il Maestro Dogen: “Se l’avessero compreso, l’avrebbero fatto conoscere”.

Sabato 17 aprile 1999, mondo

- Seguo con interesse i tuoi commenti sulla pratica dello zen, nei quali fai riferimento alla pratica di Dogen e del Buddha. Mi sembra di capire dal tuo commento sul messaggio trasmesso, che zazen si pone all’interno di una pratica assoluta che non può essere paragonata a un’altra. Non posso fare a meno di rimettere in questione questo concetto di assoluto che è peraltro negato o rimesso in questione quando si parla d’impermanenza, di costante cambiamento…
 
- Ti interrompo, perché la tua domanda è molto lunga e rischiamo di perderci. Ti rispondo subito su questo punto. Parli di dimensione assoluta come se si opponesse all’impermanenza e all’interdipendenza. E’ il contrario.
 
- No, non parlo in quel senso…
 
- In primo luogo, non si tratta di assoluto, non si tratta di rendere assoluto alcunché, perché si verrebbe a ricreare qualcosa di sostanziale, eventualmente un concetto di assoluto al quale attaccarsi, è non è il caso. Al contrario, si tratta di un modo di procedere molto pratico, molto semplice, che raggiunge il cuore stesso dell’insegnamento del Buddha, dell’essenza del nirvana, cioè l’estinzione di tutte le cause di sofferenza. Non si tratta di un ambito separato dal mondo dei fenomeni, ma di una rivoluzione dello spirito che agisce in questo mondo, di un cambiamento della nostra forma mentis. Questa rivoluzione è molto semplice, significa semplicemente abbandonare l’avidità e l’odio, significa seguire la raccomandazione del primo poema dello Shin jin mei nel quale è detto: “Penetrare la Via non è difficile, ma non devono esserci né amore, nel senso di attaccamento, né odio, né scelta, né rifiuto”. Quest’atteggiamento è la maniera di armonizzarsi istantaneamente con la realtà così com’è, la quale include anche l’impermanenza, perché tutto è impermanente, non possiamo afferrare nulla, e, poiché tutto è interdipendente, nemmeno respingere nulla. E’ una saggezza profonda e un modo di armonizzarsi con la realtà, la nostra realtà interiore e quella di tutto il cosmo. Certo, non è possibile essere sempre in questa condizione! In questo senso c’è in essa qualcosa di assoluto, perché è un’esperienza un po’ straordinaria in rapporto al nostro funzionamento abituale, ma il fatto di poterne fare l’esperienza in zazen, crea uno spazio nella nostra vita, nel nostro modo d’essere, mostra che la Via è possibile, che una via è possibile. Questa è veramente una realizzazione istantanea. Per quanto riguarda l’armonizzare la nostra esistenza con tutto ciò, è evidente che si tratta di un processo graduale, lungo e mai definitivo, proprio perché tutti noi abbiamo i nostri condizionamenti, le nostre abitudini, il nostro karma passato, elementi che esercitano la loro influenza. E’ vero che tutti i fenomeni che si presentano a noi provocano la nostra reazione, quella del nostro ego, che non si trova certo continuamente nello stato di coscienza hishiryo, ma il fatto di farne l’esperienza e di sperimentarla regolarmente permette di allentare l’ingranaggio, di trovare una maggiore libertà, un’apertura, una dimensione diversa. Non si tratta, però, di una dimensione assoluta, trascendentale, solo di una rivoluzione nel funzionamento dello spirito nell’istante stesso. Non è speciale, d’accordo?
 
- Sono d’accordo…
 
- Detto ciò, cerca di porre la tua domanda, se siamo d’accordo su questa base, ma ponila in modo conciso.
 
- Sì. Cercherò di non impiegare troppo tempo, ma ti faccio notare che anche tu usi molte spiegazioni e dettagli per spiegare qualcosa di molto semplice. A proposito del concetto di assoluto, non ne parlavo nel senso con cui mi hai risposto. E’ vero che tu, in quanto monaco zen, e anch’io, abbiamo un’affinità più o meno profonda con questa pratica. Mi è parso di capire che per te sia l’unica pratica che possa portare alla liberazione.

- E’ la tua domanda?
 
- E’ una prima domanda.
 
- D’accordo. Secondo me… sì! Per la mia pratica, per la mia vita, non ho intenzione di praticare altro, non posso praticare altro, è semplice! Ho incontrato zazen ventisette anni fa sono diventato monaco due anni dopo e, a partire da quel momento, sono stato incoraggiato a incontrare altre religioni, altri monaci, altri religiosi, altre vie spirituali. L’ho fatto! E’ una cosa che m’interessa. Ho letto molto, ho studiato, e ritengo esistano molti insegnamenti interessanti in tutte le vie, ma raramente ho trovato qualcosa che rappresentasse la possibilità di liberarsi dalla sofferenza, così come lo spirito mushotoku, senza oggetto, unità istantanea di pratica e realizzazione. Nella maggior parte degli insegnamenti la pratica spirituale è considerata come un mezzo, spesso e in quasi tutte le pratiche. Esistono dei gradini, delle scale per accedere a qualcosa, e così, si rimane costantemente nella dualità, nell’ingranaggio dell’alienazione. E’ questo il meccanismo che crea la sofferenza, ed è, del resto, la ragione per la quale vediamo molti mistici o religiosi infelici perché l’oggetto della loro ricerca sfugge loro costantemente. Vogliono comunicare con Dio, ma Dio sfugge loro, Dio è nascosto. Resta ugualmente oggetto. Rimane. Si vuole raggiungere l’assoluto e di colpo la coscienza diventa infelice. Non critico quest’atteggiamento, ha sicuramente dei lati ammirabili, molto profondi, ma, a partire dalla mia esperienza e da ciò che vedo all’esterno, non credo che si possa raggiungere la pace interiore e la liberazione in questo modo. In ogni caso, ognuno sceglie la sua strada. Non sostengo che tutti debbano praticare zazen nella maniera in cui l’insegno. Insegno in questo modo, perché ho fiducia, profondamente, a partire dalla mia esperienza e dalla mia riflessione circa questo modo di praticare. Non si tratta di dire che ho fede nell’insegnamento, perché ho cominciato a praticare senza conoscere nulla circa l’insegnamento, o il buddhismo, o lo zen, ma sono stato subito sconvolto dalla pratica. In seguito, quando ho ascoltato quest’insegnamento, il tipo d’insegnamento che impartisco durante le sesshin, sono stato profondamente colpito, perché mi sono detto: è questo! Assolutamente questo! E’ esattamente quello che sento. C’è stata una conferma. Per questo motivo ho seguito l’insegnamento. Tutto ciò è avvenuto in questo modo, non ho fatto un calcolo di tipo spirituale per arrivare a decidere. Ho incontrato zazen ed è stato istantaneo. Posso capire che per altri il cammino possa essere diverso: sono molto tollerante circa il percorso di ognuno, senza fanatismo o esclusivismo. Per quanto mi riguarda, credo che questo sia il mio cammino, e non posso insegnare altro… sono contento di avere incontrato il Maestro Deshimaru, di avere incontrato l’insegnamento di questa tradizione che si adatta veramente alla mia esperienza.
 
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- Nella ricerca di senso che ognuno di noi intraprende, chi più, chi meno, con momenti più o meno dolorosi, ho incontrato zazen... senza sapere nulla della pratica. La pratica di zazen mi ha permesso di percepire il messaggio cristiano in modo diverso. Non parlo del messaggio della chiesa cattolica, ma leggendo i libri scritti da Jean Yves Lelou non trovo differenze tra ciò che insegni e ciò che ha detto Gesù Cristo. Sto per porti l’ultima domanda…
 
- Faccio solo un piccolo commento a questo proposito. Sono felice che tu affermi ciò. Anch’io faccio questo tipo di constatazioni, perché ritengo che, in effetti, la realtà alla quale ci risvegliamo non è molteplice. Se. come credo, l’essenza della realtà è una, il fatto che profeti e grandi ricercatori spirituali o grandi maestri, o il Cristo stesso, anche se non so bene in quale di queste categorie occorrerebbe inserirlo, esprimano esperienze che sono molto comuni, è una circostanza estremamente felice e in fondo naturale. La domanda profonda è come poter fare praticamente l’esperienza che ci consenta di ritrovare l’origine, quella sorgente della quale hanno parlato i profeti e il Cristo. Ho studiato molto, letto molto, ma per me si trattava sempre, come si dice nello zen, di una mela dipinta su qualcosa di esterno… meravigliosa, ma esterna… non riuscivo a sentirne l’interno, ed è stato zazen a permettermi di sentirlo. Jean Yves Leloup ha anche praticato zazen, ed è forse per questo motivo che comprende il messaggio del Cristo in questo modo, e non è il solo. Esiste un gruppo di religiosi cristiani, di monaci benedettini, domenicani, che praticano zazen… per la stessa ragione.
 
- Ti pongo l’ultima domanda. Anche se non è attualmente il mio caso, se, in quanto monaco, abbandono una volta la Via, quale consiglio mi puoi offrire, nel caso si tratti di una ricerca di senso onesta, fatta col cuore?
 
- Non capisco la tua domanda… Non è il tuo caso attualmente? Tu vuoi dire, se un giorno avessi voglia di abbandonare zazen, è così?
 
- Anche se non è il mio caso, mi piacerebbe che ci si potesse incontrare, ora.
 
- Non posso venirti incontro ora, se non è il tuo caso. Cercami il giorno in cui sarai in questa situazione, ma ora non posso risolvere una situazione immaginaria. In ogni caso, non posso sapere in anticipo quale sarebbe la mia reazione, perché si tratterebbe di un altro momento, tu saresti diverso e si tratterebbe di un’altra relazione i shin den shin. Non è possibile… non posso risponderti in modo ipotetico. Ma posso garantirti che sarei profondamente disponibile ad incontrarti, e non sarebbe per dirti di tornare a zazen. Ho conosciuto al dojo di Nizza una persona che ha praticato zazen con entusiasmo per molti mesi, poi, un giorno, ho ricevuto un biglietto nel quale mi diceva che aveva ritrovato una fede profonda. Ora pratica con le piccole suore dei poveri ed è molto contenta. Tutto ciò è bene, me ne rallegro! Non sono certo andato a cercarla dicendole di tornare. Assolutamente. Non è una questione di esclusività, è positivo che questa persona abbia trovato la sua via, se è sbocciata in questo modo è meglio. Questo è un esempio concreto che ho vissuto. Nel tuo caso, non so dirti cosa succederà se mai dovesse accadere.
 
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- Un giorno, parlando con qualcuno del dojo, siamo arrivati a parlare del comportamento durante il kusen. La persona con la quale parlavo mi ha detto che ricordava raramente il kusen e che pensava di essere altrove durante il kusen. Ti faccio questa domanda per sapere se ho risposto bene. Le ho risposto che questo avveniva forse perché non era sufficientemente attenta a ciò che avveniva, sia all’interno che all’esterno, e che forse era troppo concentrata, e infine che forse aveva un difetto di osservazione. Anch’io, anche se ascolto, qualche volta dopo il kusen non ricordo tutto immediatamente.
 
- Allora ti dirò una cosa! A me capita di non ricordare quello che ho detto… anche spesso! Dopo, durante il mondo, le persone mi dicono: durante il kusen, hai detto questo… quello… e io… ho dimenticato completamente! Il kusen è veramente il qui ed ora. A volte, al ritorno da una sesshin, la mia compagna mi chiede: cos’hai insegnato durante la sesshin? Non lo ricordo più… certo, so di cosa ho parlato a grandi linee, ma potrei rifare il kusen, perché penso che in zazen ci si trovi in uno stato di coscienza hishiryo, al di là della coscienza che vuole afferrare qualcosa. Allora si potrebbe dire che in questo caso sarebbe meglio non fare il kusen, se si tratta poi di non ricordarlo. Ma credo piuttosto che il kusen, se è, come cerco di fare, veramente con il cuore della pratica, nel momento stesso della pratica, può diventare un aiuto per il suo approfondimento, per aprire lo spirito alla sua dimensione più profonda, che lascia intravedere qualcosa. Molto velocemente ci si riconcentra, si sente qualcosa, ma ci si riconcentra sulla pratica, non ci si fissa sull’istante, ed è dunque normale dimenticare. Non credo ci si debba preoccupare troppo di ciò. In ogni caso si fa la trascrizione, c’è il registratore, è possibile leggere gli Yuno Kusen e riflettere… allora diciamo, ecco! e ciò permette di verificare che non ci siano stati dati… come dire?  degli insegnamenti che non siamo in grado di controllare. A volte ci sono persone che si irritano nell’altro senso. Provano fastidio non per il fatto di aver dimenticato, ma perché vengono loro inculcati dei pensieri, che possono esercitare un’influenza loro malgrado. Approfitto di questo momento, anche se non si tratta della tua domanda, ma di una domanda posta molte volte. In base alla mia esperienza, ho constatato che non mi ricordo spesso dei kusen, ma quando qualche cosa mi colpisce profondamente, quando non sono d’accordo, allora me ne ricordo molto bene. Questo significa che lasciamo passare qualcosa che ci pare naturale, sulla quale siamo d’accordo. Quando invece qualcosa ci urta, allora mi accorgo che la mia coscienza è in realtà molto vigilante, e dopo cerco di discuterne con il Godo, o col Maestro Deshimaru, quando era il caso, è non ho l’impressione che mi siano state inculcate cose che non ho modo di verificare o controllare personalmente. A volte però, quando mi veniva un pensiero, ai tempi del maestro Deshimaru ascoltavo molto i suoi kusen, mi rendevo conto che si trattava di qualcosa che aveva insegnato. E’ vero che esiste un’influenza, ma quando essa risale alla coscienza, ci rendiamo conto che la adottiamo solo se corrisponde alla nostra esperienza. Altrimenti si verifica una sorta di fenomeno di rigetto, ed è bene che sia così.
 
- Per quanto riguarda la mia esperienza, mi sono accorto che molte volte non ascoltavo il kusen perché ero veramente altrove, cioè seguivo la mia…
 
- Questa è una cosa diversa. E’ essere distratti.
 
- Perché è stata letta la frase del Maestro Deshimaru che hai appena ricordato, nella quale si dice infatti che si ascolta col cervello profondo anche se non si ascolta veramente…
 
- Non ho detto ciò!
 
- No, ma mi ha fatto pensare a questo.
 
- Ah, d’accordo!
 
- Era rassicurata da questa frase, ma le ho fatto notare che non era sempre così, poiché ho notato in me i due aspetti, sicuramente questo, ma anche l’essere trascinato dalle mie distrazioni…
 
- Certo, può succedere! Ad esempio, ieri sera il cane abbaiava. Stavo parlando con qualcuno. Come, ho detto, c’è un cane che abbaia? Ma lei non l’aveva sentito. Allora mi sono detto… o lei era molto concentrata, e non ha sentito nulla, oppure era del tutto distratta, e non ha sentito nulla. Penso di trattasse piuttosto di distrazione. Scusa, ma quando si è molto concentrati si percepiscono molto bene i fenomeni.
 
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- L’insegnamento che hai dato circa la differenza tra tecnica e pratica…
 
- Pratica-realizzazione. Perché la pratica può diventare una tecnica. La maggior parte delle pratiche sono in realtà delle tecniche.
 
- Spesso nel dojo, con i principianti, vengono poste frequentemente domande, come ad esempio se zazen consiste in una tecnica. Mi è capitato di occuparmi di questa domanda, ho avuto difficoltà a capire perché ho percepito un’ambivalenza. Non posso dire a un principiante che si tratta di una tecnica perché non è vero, ma il principiante percepisce anche un altro aspetto, che assomiglia a qualcosa di religioso, di spirituale, ha paura e può così sciupare l’occasione di sperimentare da solo.
 
- Aspetta… se percepisce qualcosa di spirituale è perché l’ha sperimentato o perché tu gli parli di spiritualità? Se l’ha sperimentato da solo, non ha ragioni di averne paura, quando lo si sperimenta è la cosa più felice che possa capitare. Se ho ben capito, vuoi dire che quando mostri zazen come una tecnica, ti pare che possa essere più rassicurante per i principianti? Non qualcosa di religioso, ma semplicemente una tecnica? E’ questo che vuoi dire? Perché allora, in effetti, è opportuno che tu insista con questa domanda, perché è chiaro che esiste un aspetto tecnico nella pratica di zazen, nel senso che c’è un approccio per entrare nella pratica di zazen. In questo senso si tratta di una tecnica, occorre imparare a sapere fare zazen. Se diciamo a una persona nuova che arriva: siediti là e non muoverti, non farà zazen. Inventerà qualcosa, ma non starà facendo veramente zazen. E’ molto importante insegnare il modo di fare, e dunque, all’inizio di ogni zazen, non solo degli zazen nei quali si è principianti, esiste un aspetto tecnico. Con tecnico intendo pratica cosciente e volontaria per entrare nella pratica. Ci si concentra sulla postura, dando a se stessi le istruzioni anche se il Godo non dice nulla, come ad esempio: rientrare il mento, tendere la nuca, tendere le reni… si ripercorre tutto il processo. In questo senso si tratta di una tecnica, facciamo qualcosa di concreto. Ci concentriamo sull’espirazione, anche il dire che occorre lasciar passare i pensieri è una sorta di tecnica, un modo di fare! Ma c’è un momento… l’ho spesso insegnato nel corso dei mondo, in zazen, nel quale si passa dalla pratica cosciente alla pratica inconscia. Inconscia nel senso di senza sforzo di volontà per fare qualcosa di particolare, seguire una tecnica. Esiste una tecnica che permette di andare al di là della tecnica, di non rimanere dentro la mera tecnica, ma esiste comunque un aspetto tecnico, altrimenti non si potrebbe insegnare zazen. E’ vero che ai principianti si insegna soprattutto la tecnica, ma se non si insegnasse loro, quasi simultaneamente, ad andare al di là, in una dimensione mushotoku, sarebbe facile rinchiudersi in una pratica limitata e non si potrebbe continuare zazen, andare al di là, perché l’effetto liberatorio di zazen non potrebbe realizzarsi. Si rimane dentro una pratica legata allo sforzo, e, come si dice in argot, si sgobba. E’ duro e si finisce con lo sgobbare ancora per fare qualcosa.
 
- E’ assurdo!
 
- Non è del tutto assurdo, un poco sì… uno sforzo per fare qualcosa. Occorrono i due aspetti. Possiamo sperimentare tutto ciò in noi. Anche il Maestro Dogen insegnava questa dimensione al di là di zazen insegnava anche esattamente che esiste una pratica conscia e una pratica inconscia. La pratica con lo sforzo e quella al di là dello sforzo, sono necessarie entrambe. Per quanto riguarda i principianti è necessario insegnare loro il modo concreto di praticare, ma lasciar loro intravedere molto rapidamente la dimensione mushotoku. Ma se si comincia subito con mushotoku, allora zazen diventa incomprensibile, perché è troppo lontano dal nostro funzionamento ordinario. Possiamo capire, sentire, averne l’intuizione a partire da zazen. D’accordo?
 
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- Hai detto che il Buddha ha insegnato due cose, la sofferenza e la cessazione della sofferenza…
 
- E’ lui che diceva ciò. Diceva che nella vita aveva insegnato queste due cose. Incontrava numerosi bramini, religiosi, persone che professavano ogni sorta di filosofia, ai suoi tempi c’era una grande effervescenza filosofica… Era spesso in contatto con persone che cercavano di sapere quale fosse il fondamento del suo insegnamento e spesso diceva: ho insegnato molte cose, ma la cosa essenziale consiste nel prendere coscienza della sofferenza, delle sue cause, del fatto che è possibile risolvere questa sofferenza, sfuggirvi… Il modo per raggiungere ciò è dato dalle quattro nobili verità.
 
- Ho un problema per quanto riguarda la cessazione della sofferenza, e ho anche l’impressione che si tratti di un oggetto di desiderio. Questo non fa che aumentare la mia sofferenza.
 
- Certo, hai ragione. Per questo motivo la pratica mushotoku è così importante. Buddha stesso affermava che se ci si attacca al nirvana si è fregati. Insegnava il nirvana, cioè la cessazione della sofferenza, è chiaro, era il cuore del suo insegnamento, ma diceva che se ci attacchiamo ad esso, se pratichiamo con questo scopo, nonostante sia il senso della pratica, l’essere attaccati al nirvana ci porta al suo opposto, esattamente ciò che descrivi tu. In altre parole, l’insegnamento di mushotoku non è una specialità dello zen Soto come si crede e come io stesso ho creduto un tempo, ma è il cuore stesso dell’insegnamento del Buddha. Anche quando rileggiamo i sutra più antichi, i più primitivi del buddhismo, molto lontani dallo zen, precedenti di mille anni, anche quelli che a volte sono stati criticati come lontani dallo spirito del Mahayana, ciò che colpisce è l’onnipresenza dell’insegnamento di mushotoku nella lezione del Buddha, di mushotoku nel senso di non-attaccamento. Il non-attaccamento non può essere raggiunto volendolo. Questo è il problema nel quale sei bloccato. E’ vero, si insegna così, e ci si dice: è formidabile! devo realizzare proprio questo… E’ vero che si tratta del senso della pratica, ma non è possibile realizzarlo volendolo, e nemmeno non volendolo. Dobbiamo volerlo senza volerlo… è un problema molto sottile, ma non assurdo.
 
- L’esperienza più diffusa tra gli uomini è la sofferenza?
 
- Sì, certo!
 
- Non la cessazione della sofferenza?
 
- Sì, è vero. Si potrebbe quasi credere che ci sia un certo attaccamento alla sofferenza che ci fa prendere coscienza della nostra esistenza. Conosco persone che hanno bisogno di soffrire per sapere che esistono. Ma, nonostante la parola sofferenza sia molto diffusa, credo sia più opportuno tornare a dukka. La parola usata dal Buddha, dukka, in pâli, era molto più vasta del termine sofferenza. Se diciamo che la vita è sofferenza, tutti diranno: no, assolutamente no! Certo, a volte soffro, ma ho dei momenti molto felici e per fortuna tutti ne hanno. Quando il Buddha parlava di dukka come di un concetto universale, intendeva che anche la più grande felicità, proprio per il fatto che ci si attacca ad essa e che si ha la coscienza che non può durare, poiché è condizionata dalle circostanze, dovrà essere abbandonata un giorno, sarà perduta. Questa consapevolezza può sciupare i migliori momenti di felicità, ma questo non significa che non si sia capaci di avere momenti felici nella vita, e anche molta felicità nella vita, salvo che… ciò ti commuove vero? Certo. E’ possibile essere felici, ma per realizzare la liberazione autentica nei confronti di dukka, non esiste altra soluzione che il distacco. Questo non significa diventare degli asceti e rifiutare tutto il piacere e la felicità dell’esistenza, ma, per quanto riguarda la felicità, significa rendersi conto che si tratta di un dono, qualcosa di momentaneo, d’istantaneo, che non durerà. Questo non significa che non dobbiamo apprezzarlo, ma dobbiamo apprezzarlo anche nella sua impermanenza. E’ questa la cosa difficile, ma in realtà è la chiave della liberazione. Apprezzo comunque che tu abbia questa difficoltà, questa fatica, perché mostra che la tua ricerca è veramente profonda, che tu cerchi di andare all’origine della domanda, la domanda umana più fondamentale. Non è facile da risolvere. Una trappola potrebbe consistere nel credere di essere distaccati, attaccandoci al distacco… sì! per questo nello zen si insegna sempre ad andare al di là. Ciò che cantiamo nell’Hannya Shingyo è proprio questo movimento dell’andare costantemente al di là, senza fermarsi avendo l’impressione di aver afferrato qualcosa, compreso il fatto di aver raggiunto il risveglio, di aver raggiunto il nirvana, di essere distaccati, da tutto. Occorre essere distaccati anche dal distacco. Vedo persone che sono commosse, credo che tocchi profondamente perché è vero… è una via infinita, non finiremo mai. Per quanto mi riguarda, penso che sia proprio questo ad essere meraviglioso, e al tempo stesso realista. A mio parere è la prova che questo insegnamento non è una nuova illusione, un insegnamento nel quale ci è stata promessa una sorta di paradiso, un paradiso definitivo, ma è un cammino, un modo di avanzare nella vita andando costantemente al di là di tutte le nostre tentazioni di possedere e di fermarci su qualcosa. Possiamo guardare tutto ciò coscientemente, ad esempio in questo mondo sto cercando di spiegare il più possibile, e voi poi rifletterete, ma in definitiva l’unico modo per comprendere ciò è fare zazen. Zazen ci trasporta in questa dimensione. La nostra riflessione ci può solo far vedere quanto sia inafferrabile, e in zazen abbiamo l’occasione di armonizzarci con tutto ciò, per questo zazen è così prezioso, ci permette di intravedere e di toccare con l’esperienza, anche fuggevole, questa possibilità di essere al di là.
 
* * * * * * * * * *
 
- Vorrei sapere qualcosa circa la relazione tra l’individuale e il sociale nella società, perché sento profondamente che è necessario partire da una rivoluzione interiore per cambiare ciò che ci circonda, ma non c’è l’altro versante. Sento molto il fatto di guardare al di là della propria famiglia…
 
- Vuoi dire dell’ego.
 
- Sì, dell’ego. Nello zen è prevista un’azione nella società che ci circonda, ma questa stessa società può influenzare. E’ possibile fare qualcosa per questo pianeta che si sta distruggendo, pensare a questa sofferenza collettiva e fare un’analisi di questa realtà nelle comunità zen?
 
- Sì. E’ chiaro che all’interno del dojo, l’insegnamento e la pratica sono concentrati piuttosto sulla radice di questa rivoluzione spirituale, senza la quale tutti gli sforzi per cambiare la società o l’ambiente sono votati alla sconfitta. Nel ventesimo secolo tutte le ideologie che hanno tentato di cambiare il mondo hanno provato il fallimento, perché mancava la rivoluzione interiore. Anch’io vengo da là, da quell’esperienza. Questo punto è chiaro! E’ vero anche che nel dojo non abbiamo fatto studi o analisi sulla società, l’ecologia, perché in fondo spetta ad ognuno impegnarsi e realizzare ciò come gli sembra meglio. Tuttavia, l’impegno sociale, l’impegno ecologico è incoraggiato vivamente, è un aspetto dei voti del bodhisattva per salvare tutti gli esseri, ed è vero, come dici, che devono ancora esserci esseri da salvare! Se lasciamo che il pianeta cada completamente in rovina, non esisterà più né la pratica, né il risveglio, non ci sarà più nulla. Ho notato che, dopo un certo periodo di pratica, la maggior parte dei discepoli affina spontaneamente un interesse sociale, ecologico, umanitario, entrando in una relazione di aiuto reciproco. Ritengo sia effettivamente meglio così, senza diventare l’oggetto di una riflessione collettiva che potrebbe sfociare in una sorta di ideologia zen. In ogni caso, sono stati organizzati incontri relativi a questi temi e mi è spesso capitato di fare conferenze, specialmente in Germania, su zen ed ecologia. Il Maestro Deshimaru aveva fatto un kusen, che purtroppo non è mai stato pubblicato, a proposito di zen e civiltà. All’epoca ci aveva incoraggiato, dicendoci di continuare, e quando ne avevamo proposto la pubblicazione, aveva rifiutato dicendo che non era sufficientemente approfondito. Aveva detto che toccava a noi continuare e che era necessario uno sforzo di riflessione collettivo, che rientrava in un certo senso nell’idea che il maestro Deshimaru aveva della Gendronnière. Egli desiderava che vi si creasse un’università zen e un luogo di incontro che comprendesse dei simposi, dei colloqui sui temi importanti per la società. Abbiamo organizzato alcuni incontri, continuiamo a farlo e svilupperemo sicuramente quest’aspetto. E’ anche vero che siamo stati, sino ad oggi, piuttosto prudenti, proprio per non rientrare nell’elaborazione di una qualche ideologia, cercando di dare l’esempio con la pratica, insegnando ad ognuno a realizzare la propria rivoluzione interiore, influenzando così l’ambiente circostante. D’accordo?

Domenica 18 aprile 1999, kusen delle 7:00

Non lasciate che la vostra postura cada in avanti. Concentratevi attentamente sulla postura, tendete le reni, la colonna vertebrale, la nuca e rientrate il mento. Durante zazen ritorniamo costantemente alla concentrazione su questi punti essenziali della postura. All’inizio lo si fa coscientemente, seguendo tutti i punti principali, poi, con l’abitudine della pratica di zazen, tutto ciò si fa inconsciamente e naturalmente. Il corpo e lo spirito in unità ricercano costantemente la postura giusta. Questa unità del corpo e dello spirito, ritrovata nella pratica di zazen, è un punto essenziale dell’insegnamento del Buddha.
 
Tuttavia l’essere umano ha sempre la tendenza a separare: il corpo e lo spirito, sé e gli altri, passato, presente e futuro. A causa di queste separazioni appaiono le sofferenze. Zazen è il luogo, il momento nel quale queste separazioni sono abolite. Nel Bendowa il Maestro Dogen affronta l’argomento che costituisce la domanda n.°10. Questa domanda è piuttosto lunga, così sarò obbligato a riassumerla. Colui che pone la domanda dice: “Non rimpiangete la vita e la morte, poiché esiste un modo rapido per sbarazzarsi rapidamente della vita e della morte conoscendo il carattere immutabile ed eterno della natura dello spirito. Il punto essenziale è che sebbene il corpo sia nato e debba necessariamente morire, questa natura dello spirito non muore mai e riconoscere ciò è il modo per liberarsi della vita e della morte. Ritroviamo questo punto in molte religioni, e sembrerebbe addirittura che numerose credenze religiose si siano elaborate a partire da questo punto. Di fronte alla morte gli uomini hanno molto presto immaginato che, anche se il corpo muore, lo spirito, l’anima, lasciano il corpo e vivono eternamente”.
 
Dogen risponde dicendo: “Il punto di vista che avete appena esposto non è assolutamente il Dharma del Buddha, ma il punto di vista dell’eresia. Già all’epoca del Buddha un gruppo di discepoli che si credeva buddista aveva elaborato questa teoria credendo fosse l’insegnamento del Buddha.
 
Il Buddha li aveva costantemente criticati. In seguito questo genere di teorie è riapparso, e continua ad apparire anche ai giorni nostri. (… ) Dogen ricorda che nel Dharma del Buddha il corpo e lo spirito non sono due, la sostanza e la forma non sono due. Praticando zazen ritorniamo costantemente a questa unità di corpo e spirito.
 
Lo possiamo verificare costantemente. (… ) Se consideriamo l’impermanenza del corpo, anche lo spirito è impermanente. Se consideriamo che lo spirito è eterno, allora anche il corpo deve essere eterno. Nel Dharma del Buddha non si prende posizione circa l’eternità, considerata come un punto di vista estremo.
 
Dire che il corpo e lo spirito scompaiono è anch’esso un punto di vista estremo. In realtà il Dharma del Buddha non separa la natura dello spirito da tutti i fenomeni dell’universo: le montagne, i fiumi, il cielo, la luna, le stelle, il sole, tutti gli esseri sono la natura dello spirito. Quando pratichiamo zazen ci armonizziamo con questa realtà fondamentale. Nella nostra realtà non c’è bisogno di opporre vita e morte al nirvana. Sono due aspetti della natura dello spirito. Dobbiamo praticare zazen non detestando vita e morte, e non ricercando il nirvana. Ogni istante di zazen è vissuto al di là di ogni opposizione, liberiamo lo spirito dalle opposizioni.
 
Questo vuol dire non essere più prigionieri del linguaggio, delle parole, dei concetti, che creano senza sosta separazioni. Questo è il grande merito della pratica di zazen. Ritrovare l’unità della nostra vita con tutto l’universo.

Senza nascita e senza morte
È la vita al di là del piccolo ego
L’autentica eternità.

Traduzione: Maresa Di Noto