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L'associazione zen bodai dojo è membro dell' UBI, Unione Buddhista Italiana

 
Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
21 dicembre 2003
Giornata di zazen a Fossano
diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

Insegnamento del Maestro Wanshi


Domenica 21 dicembre 2003, kusen delle 8:15

Il proprietario della sveglia che suona deve andare a spegnerla subito! [prima parte di zazen]

Durante zazen ritornate costantemente alla concentrazione sulla postura, al di là dei rumori, dei suoni che si sentono, come in questo momento le campane della chiesa o il rumore dello sciacquone. Ogni suono è un'occasione per ricordare che "qui ed ora" è importante, e qui è importante essere totalmente seduti, essere in unità con la postura seduta, poiché la nostra realtà presente è essere seduti in questo dojo insieme, diventando totalmente la postura di zazen, mettendo tutta l’energia e l’attenzione in questa postura.

In particolare inclinate il bacino in avanti, prendendo appoggio saldamente con le ginocchia al suolo, rilassate bene il ventre facendo sì che il peso del corpo prema sullo zafu. Il bacino è inclinato in avanti in modo da permettere questo radicamento al suolo, ma le reni non devono essere troppo tese, la respirazione deve poter essere fluida e il ventre rilassato.

A partire dalla vita estendiamo la colonna vertebrale rilasciando tutte le tensioni della schiena. Coloro che hanno dolori particolari alla schiena , non devono temere la postura di zazen, che è piuttosto l'occasione di rilassare la schiena e la nuca. Sbloccate la schiena, la nuca, allungate la colonna vertebrale come se voleste toccare il cielo con la sommità del capo, ma con flessibilità.

Il mento è rientrato, senza però provocare rigidità nella nuca; il volto è rilassato come gli occhi, lo sguardo è posato davanti a sé verso il suolo senza fissare un punto in particolare, le spalle sono rilassate, la mano sinistra nella destra, i pollici orizzontali.

Quando avrete trovato la vostra postura giusta ed equilibrata, potrete finalmente porre la vostra attenzione sul contatto dei pollici, vi potrete concentrare su un solo punto, in particolare per i principianti questo punto può essere il contatto dei pollici. Se in zazen lo spirito non è sereno, allora è meglio concentrasi su un solo punto che può essere il contatto tra i pollici. Se siete ben concentrati su questo contatto, potrete sentire la pulsazione del cuore, questo significa che siete in una corretta postura e nello spirito di zazen.

A quel punto pensate con il corpo intero, non solo con la testa. Il pensiero con il corpo intero è un pensiero che non crea separazioni e permette di ritrovare lo spirito precedente alla creazione di tutte le nostre dualità. E’ lo spirito originario e quando lo si sperimenta possiamo sperimentare intuitivamente la vacuità, e a quel punto la concentrazione diventa naturale, facile.

Tutto ciò che appare durante zazen non ci preoccupa, non ci ingombra lo spirito, è quello che permette di penetrare in quello che il Maestro Wanshi chiamava il "campo, l'ambito illimitato e luminoso". Diceva che il campo della vacuità illimitata è ciò che esiste fin dall'origine.

Quando pratichiamo zazen, facciamo ritorno a questa origine con la quale abbiamo perduto il contatto, ci siamo rinchiusi nel nostro ego limitato, nelle nostre costruzioni mentali, abbandonando il contatto con l'origine, con la fonte, con ciò che esiste precedentemente alla nostra nascita, che esiste da prima che separassimo noi stessi dagli altri

Tutte le religioni cercano di riportarci a questa realtà, ma per la maggior parte del tempo ciò avviene attraverso nuove costruzioni mentali, e di colpo ci si ritrova ancora più soggetti ad opposizioni. Praticare zazen è, come diceva il Maestro Wanshi purificare, curare. Tutte le tendenze che noi abbiamo costruito e che sono diventate le nostre abitudini di pensiero; attraverso la ripetizione della concentrazione vengono eliminate, ridotte in polvere.

E’ quello che permette, dice Wanshi, di risiedere finalmente nel cerchio di luce e di luminosità.

Oggi è il giorno più corto dell'anno, la notte più lunga, è il periodo dell'anno più buio, ma al tempo stesso Natale è la festa della luce, è trovare la luce nell'oscurità.

Nella pratica di zazen tutto ciò si realizza eliminando tutto ciò che oscura il nostro spirito, realizzando che non ha maggiore sostanza delle nuvole nel cielo. Quindi, durante questa sesshin, concentratevi bene sulla respirazione, lasciate passare tutti i vostri pensieri, ritornando costantemente alla verticalità della postura e al contatto dei pollici.

Domenica 21 dicembre 2003, kusen delle 11:00

Durante zazen ritornate costantemente all'attenzione alla vostra respirazione, è l'altro polo di concentrazione. La postura è la base, ma la respirazione è ciò che ritorna costantemente.

Ritornare all'attenzione sulla respirazione, ci riporta naturalmente al "qui ed ora" e fa apparire tutte le nostre costruzioni mentali come completamente irreali. Tutto ciò a cui pensiamo durante zazen, per il novantanove per cento non ha niente a che vedere con questo zazen qui ed ora, si tratta di qualcosa di diverso, di immaginario, privo di sostanza.

Ma a che cosa ci si attacca? Talvolta possono diventare delle abitudini mentali, delle ossessioni, che oscurano lo spirito. Ma se vogliamo combatterle, con la mente, con lo spirito ordinario, questo crea un turbamento supplementare.

E’ talvolta più saggio concentrarsi solo sulla postura e sulla respirazione, lasciando che questa concentrazione sciolga naturalmente i nodi che abbiamo fabbricato.

Quando, durante una giornata di zazen come oggi, continua questa concentrazione per un certo periodo, allora possiamo trovare uno spirito completamente libero, disponibile e luminoso, non oscurato dai pensieri.

Tutte le nostre preoccupazioni svaniscono e possiamo così constatarne la vacuità, che non deve però diventare un’immagine o un concetto. E’la natura reale di ogni cosa con la quale ci armonizziamo naturalmente, quando smettiamo di seguire i nostri pensieri, quando viviamo di nuovo attraverso il corpo, la respirazione, rimanendo giusto presenti a ciò che sorge e a ciò che scompare di istante in istante, al processo della vita di ogni istante. Poiché non ci attacchiamo ai nostri pensieri, non dipendiamo da nulla. Come dice il Maestro Wanshi, questa indipendenza non si appoggia su nulla: si potrebbe credere che dipenda dalla pratica, ma poiché non vi è separazione tra la pratica e noi, poiché diventiamo la pratica stessa, allora non c'è dipendenza tra sé e la pratica, la pratica è noi e noi siamo la pratica. E questo non avviene soltanto durante zazen, ma in tutta la nostra vita: noi siamo ciò che pratichiamo.

Spesso ciò che pratichiamo è condizionato dalle nostre illusioni, allora diventiamo preda delle illusioni nella vita del karma, ma quando smettiamo questa vita, ci sediamo in zazen e volgiamo in nostro sguardo verso l'interno, allora possiamo illuminare la nostra vita e imparare a vederci chiaro, cioè ritornare alla verità originaria, senza dipendere dai nostri pensieri, né dalle condizioni esterne, senza lasciarci ingannare dei fenomeni.

Il Maestro Wanshi dice che siamo invitati a comprendere che non una sola cosa ha esistenza propria, cioè che nessuna esistenza ha sostanza. Non è una nuova concezione filosofica della vita, ma l'esperienza intima che possiamo realizzare noi stessi in zazen. Se fate un'esperienza diversa, allora per favore mostratemela, mostratemi ciò che avete trovato che possiede una sostanza propria, cioè che esiste in modo permanente e per se stessa. Se non trovate nulla che assomiglia a questo allora potrete risvegliarvi alla vita illimitata.

In questo ambito della vita, che il Maestro Wanshi chiamava il "campo della luce illimitata", non vi è nascita né morte, ciò che nasce, ciò che pare nascere, è semplicemente la manifestazione della trasformazione costante dei fenomeni, mentre la morte non è altro che il seguito di questa trasformazione dei fenomeni. In realtà non esiste né nascita né morte, ma semplicemente la costante trasformazione di ogni cosa, noi stessi siamo questa costante trasformazione.

Praticare zazen ci aiuta a ritornare a questa realtà, a impregnarci di essa, ad armonizzarci con essa ritrovando un corpo e uno spirito flessibili, dolci, senza opposizioni.

Domenica 21 dicembre 2003, mondô

- La costante trasformazione dei fenomeni è la natura del Buddha?

- Sì. [risate] Non deve essere solo un’idea, una teoria. Diventa la natura del Buddha quando ci armonizziamo con questo, quando la accettiamo realmente e viviamo in armonia con essa, quando riusciamo ad abbandonare la presa in rapporto ai nostri attaccamenti. Se ripetiamo sempre “Ah, l’impermanenza di ogni cosa, la trasformazione dei fenomeni è la natura del Buddha” e poi quando siamo confrontati con questa trasformazione non accettiamo il cambiamento, che può essere non solo qualcosa di meglio, ma anche di peggio, una malattia, la morte, il non accettare questa trasformazione significa che non abbiamo accettato che era l’autentica natura della nostra esistenza. In questo caso, se la natura del Buddha diventa solo un concetto teorico, col quale non si è veramente in armonia, allora non è veramente la natura del Buddha, è un’idea a proposito della natura del Buddha. E non può essere un’idea, poiché è la nostra autentica natura. Si realizza soltanto quando diventa la fonte del nostro risveglio. Vi è in effetti identità tra natura del Buddha e risveglio. La natura del Buddha intesa come pensiero è solo un pensiero, ma non è la natura del Buddha. Non è là per essere pensata, ma per essere vissuta, realizzata. Non è astratta, ma è la fonte della nostra vita ed è importante immergersi in essa veramente, altrimenti non possiamo dire di averla realizzata. Anche se, come fai tu, si afferma che la natura del Buddha è la trasformazione dei fenomeni, è l’impermanenza, ed io rispondo sì, se resta al livello di un semplice scambio di idee. Non è la natura del Buddha. E’ la ragione per la quale quando Eno si era recato da Konin, il quinto patriarca e lui gli aveva chiesto “Che cosa vieni a fare qui?”, Eno aveva risposto “Vengo per realizzare la mia natura del Buddha.”. Konin gli aveva detto “Da dove vieni?” ed Eno “Vengo dal sud.”. Konin aveva detto “Coloro che vengono dal sud della Cina non hanno la natura del Buddha.”.

Questo mondô è molto celebre ed è bene che vi faccia ridere, in questo modo ve ne ricorderete… Questa risposta era molto profonda. Evidentemente lui ha risposto che nella natura del Buddha non esiste sud o nord. Forse in Italia questo è un punto delicato, sensibile... I calabresi non hanno la natura del Buddha [risate], solo quelli di Milano la possiedono! E’ uno scherzo, naturalmente. In realtà la natura del Buddha non è qualche cosa che si possa possedere. E’ per questo che Konin aveva risposto che non c’è natura del Buddha, mu busho: mu significa niente, dunque "nessuna natura del Buddha".

Per il Maestro Dôgen, naturalmente, la risposta di Konin rappresentava l’espressione migliore della natura del Buddha: la natura del Buddha non è nulla che si possa afferrare coni i nostri pensieri, con i nostri concetti. Anche affermare che è l’impermanenza non rappresenta una vera risposta. Occorre realizzarla profondamente attraverso il corpo e lo spirito, senza farne qualcosa di speciale.

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- Vorrei parlare del rapporto tra uomo e donna. Come un praticante zen e come la filosofia zen vede il rapporto sentimentale, sessuale e d’amore tra uomo e donna?

- Non lo vede perché questo aspetto non lo riguarda. Quando si entra nel dojo non ci sono più uomo e donna, non esiste più la differenza tra i sessi, il dojo non è un luogo di incontro per conoscere possibili compagni. Quando veniamo al dojo pratichiamo ciò che è al di là delle differenze tra uomo e donna, pratichiamo la Via del Buddha, che è esattamente la stessa sia per gli uomini che per le donne, non c’è differenza. Fondamentalmente è questo: si viene al dojo per realizzare ciò che è l’essenza della nostra vita e che è al di là delle differenze. Prima parlavamo del nord e del sud, di essere al di là delle differenze tra uomo e donna, tra ciò che amiamo e ciò che non amiamo, per superare l’opposizione tra l’amore e l’odio, mentre nella vita umana di cui si parla, nell’amore fatto di attaccamento di un uomo per una donna e viceversa, si è nel mondo dell’ego che deve rapportarsi in merito a questa preferenza, che ama questa persona, che si innamora perché colui o colei di cui ci si innamora corrisponde a ciò che ci aspettavamo, oppure che immaginavamo. Sogniamo che questa persona risponda alle nostre attese e se risponde la amiamo, se non risponde più alle nostre attese, allora non la amiamo più.

Questo è il mondo del karma, il mondo dell’ego: si cercano sempre soddisfazioni. Ma il vero amore dal punto di vista della pratica dello Zen è completamente al di là di questo, è quanto chiamiamo piuttosto la benevolenza, la compassione, che si estende a tutti gli esseri che incontriamo, anche se non ci sono molto simpatici o se ci sono profondamente antipatici, trattare tutti gli esseri con uguaglianza, non fare differenze non solo tra uomo e donna, ma anche tra un essere umano e un animale, ed esprimere così il nostro amore universale, la nostra compassione per tutti gli esseri, senza creare differenze. Questo è l’amore nello Zen. Evidentemente nel momento in cui incontriamo un compagno, una compagna, e si crea una relazione amorosa, sin dall’inizio c’è la proiezione dell’ego che mira ad ottenere la soddisfazione dei propri bisogni, delle proprie attese, ma questo è normale, è la dimensione del mondo ordinario, non si può respingere o reprimere questo, ma ciò che possiamo fare, se siamo praticanti della Via, è, a partire da questo punto di partenza, dai nostri desideri, far crescere la relazione verso una dimensione più profonda, al di là dell’amore ordinario, scoprire un modo di essere in relazione con l’altro, cercare di accettare l’altro per ciò che è realmente e non solo come un oggetto di desiderio e di soddisfazione più o meno appagante a seconda delle circostanze. Ed è così che si può trovare, se si può dire, un amore eterno, non condizionato dal fatto che l’altro o l’altra è bello, o bella, gentile o simpatico, adeguato o meno ai nostri desideri. Esiste una gradazione tra l’amore totalmente egoistico, da un lato e l’amore universale e disinteressato dall’altro, esiste una fusione possibile tra queste due dimensioni. E’ importante capirlo e permettere al nostro amore di evolvere, senza restare in una dimensione limitata. D’accordo? Hai un problema a questo riguardo?

- No, niente di particolare. Pratico da circa un anno, ho letto diversi libri e quasi mai si accenna alla sfera sessuale di un praticante, a questo tipo di rapporto con il corpo.

- Nella tradizione buddhista l’insegnamento era impartito essenzialmente ai monaci, almeno l’insegnamento raccolto nei sûtra. Sono stati poi i monaci ad avere trasmesso questo insegnamento, anche se il Buddha insegnava a ogni sorta di persone, monaci, monache, anche laici. Disgraziatamente nell’insegnamento del Buddha che è durato quarantacinque anni, (poiché insegnava tutti i giorni ed ha pronunciato molti insegnamenti), ciò che è rimasto, all’ottanta per cento, è l’insegnamento destinato ai monaci. Un insegnamento destinato ai monaci era l’invito a diffidare dell’attaccamento sessuale, che era causa di disturbo per la pratica dei monaci che facevano voto di castità come i monaci cristiani. Evidentemente sia per i monaci che per le monache i desideri sessuali erano una causa di perturbamento per la meditazione, si poteva essere ossessionati dai desideri, era un grosso problema. Il Buddha si è espresso spesso consigliando ai monaci di controllare i desideri sessuali, lasciandoli da parte, non pensandoci, ma ha insegnato anche ai laici. Insegnava a prendersi cura dei propri compagni e compagne, rispondendo ai loro desideri, essendo gentili, certo, anche di fare all’amore, dipende dalle situazioni, mentre i monaci dovevano concentrarsi solo sulla meditazione. Ma noi siamo da più di un secolo, almeno nella tradizione dello Zen, autorizzati a formarci una famiglia, a sposarci, ad avere una professione, quindi la situazione è un po’ differente. La risposta che ti ho dato prima è relativa alla situazione attuale, nella quale la sessualità deve essere integrata nella vita, nella pratica, e questo non vuole dire sopprimere, ma trasformare. La ragione per la quale negli scritti non trovi testi che parlino della relazione sessuale è legata al fatto che prima era proprio quanto si doveva dimenticare, per i monaci e per le monache, ma se si cerca bene è possibile trovare insegnamenti rivolti ai laici nei quali il Buddha era molto comprensivo, dicendo che bisogna fare attenzione e rispondere ai desideri dei propri compagni, se si è sposati. In rapporto a questo aspetto la principale raccomandazione del Buddha era relativa al precetto della fedeltà , per quanto riguarda i laici, coloro che potevano avere relazioni sessuali, non era un divieto, quanto piuttosto la raccomandazione di evitare l’infedeltà, che crea le sofferenze maggiori. Dunque se hai una relazione è meglio che sia con qualcuno che ami sufficientemente da essere fedele, altrimenti è meglio non cominciare nemmeno.

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- Quando ero più principiante di quanto sono ora tendevo ad evadere da una vita che non mi piaceva praticando zazen.

- Cosa non ti piaceva nella vita?

- Mi lasciava sempre insoddisfatto, credevo che quanto più la vita fosse brutta tanto più fosse facile recidere il karma. Ora grazie a zazen e ai tuoi insegnamenti mi pare di aver capito che, per recidere il karma, bisogna prima nobilitarlo quanto si può, vorrei sapere se puoi esprimere…

- Cosa vuol dire nobilitare il karma?

- Utilizzare le occasioni che la vita quotidiana ci offre per praticare il Dharma.

- Certo, ma che cosa ha a che fare questo con il karma? Cosa vuol dire per te nobilitare il karma?

- Significa sviluppare compassione e amore e tentare di rendere la vita bella.

-Capisco cosa vuoi dire, invece di recidere ogni karma dici che prima occorre concentrarsi a creare del buon karma, è questo che vuoi dire? Perché no? La via del bodhisattvâ è questa, i monaci che volevano diventare degli arhat si concentravano nel recidere ogni karma, perché trovavano che la vita era assolutamente negativa, a causa della sofferenza, e in ogni caso c’era l’urgenza di uscire dal ciclo del samsâra, delle rinascite condizionate dal karma, non necessariamente negative. Si crede sempre che il karma sia negativo, ma esiste anche un buon karma, esistono buone azioni che generano buone conseguenze, buone rinascite. E’ vero che l’insegnamento fondamentale del Buddha destinato ai monaci era di abbandonare ogni karma. Questo pone un problema: in questo caso non si dovrebbe più agire perché se, ad esempio, agiamo per aiutare le persone, spinti dalla compassione, anche se si tratta di un’azione che crea del buon karma, bisogna poi continuare a rinascere nel mondo solamente per raccogliere i risultati di questo karma. E’ proprio quello che fanno i bodhisattvâ, che non cercano di recidere ogni karma, perché questo vorrebbe dire abbandonare il mondo, mentre il voto del bodhisattvâ è di non abbandonare il mondo finché tutti gli esseri non saranno liberati. Il bodhisattvâ deve rimanere per forza in contatto con il karma e agire, e, poiché agisce per compassione, usa il karma, che gli dà l’occasione di continuare ad esistere nel mondo. Ma poiché è il suo voto, questo non gli pone problemi.

Vorrei comunque aggiungere qualcosa: se vediamo le cose in questo modo, va bene, ma bisogna capire che il bodhisattvâ, anche quando agisce bene, non lo fa per ottenere dei meriti, agisce con uno spirito mushotoku, quindi la sua azione si pone al di là del karma, cioè realizza qui e ora la liberazione. Si descrive spesso il bodhisattvâ come un essere che si sacrifica eternamente per la salvezza degli altri, ma è una visione erronea, una visione giudeo-cristiana del sacrificio. Il bodhisattvâ non si sacrifica affatto, agisce naturalmente, spontaneamente, in armonia con la natura del Buddha, senza egoismo, senza attendere una particolare ricompensa da queste buone azioni. Non agisce bene pensando che ne avrà un buon karma, pratica solo ciò che è giusto qui ed ora in modo naturale. Il suo modo di agire è già la liberazione, è libero dal suo ego, libero di agire a partire dalla natura del Buddha realizzata nella pratica. In effetti è già liberato, anche se nel mondo ha una relazione differente.

- Domande? Abbiamo voglia di sgranchirci le gambe? Allora facciamo kin-in.

Domenica 21 dicembre 2003, kusen delle 16:00

La giornata di zazen è quasi terminata, ma continuate a concentrarvi sino in fondo, sino alla fine. Concentrarsi sino in fondo vuol dire tornare costantemente alla fonte dello spirito, al punto in cui tutti i fenomeni appaiono. Per rimanere su questo punto non ci si lascia trascinare dai fenomeni che sorgono, si resta in contatto con la sorgente, con la vacuità dei fenomeni.

Il Maestro Wanshi diceva a proposito di questa sorgente: “E’ trasparente fino al fondo, brilla chiaramente e può rispondere alla minima particella di polvere, senza esserne ostacolata, senza attaccarsi, né impadronirsene.” Concretamente, in zazen, ciò significa che non è necessario voler recidere, eliminare i pensieri; se si rimane alla fonte da cui sorgono, se non li si segue, non ne siamo disturbati. Possiamo vedere senza attaccarci agli oggetti della visione, sentire senza essere attaccati ai suoni, come dice Wanshi: “Tutto funziona senza lasciare tracce, tutto è riflesso come in uno specchio che nulla può oscurare.

Lo spirito e tutti i fenomeni si armonizzano poiché si pratica senza usare la coscienza personale, cioè senza voler ottenere o respingere qualcosa, senza giudicare, né discriminare, con uno spirito aperto, mushin senza intenzione, senza secondi fini. Così è possibile trovare la pace dello spirito e, come dice Wanshi, “finalmente potrete riposarvi”.

Molte persone sono stanche: è il periodo dell’anno. Certo c’è il lavoro, le condizioni di vita, gli obblighi ai quali fare fronte... Se si è troppo attaccati alle cose, a ciò che facciamo, agli esseri, tutto diventa molto stancante, ma se facciamo fronte ai fenomeni senza attaccamento, possiamo compiere le stesse azioni senza stancarci, in ogni caso stancandoci molto meno, cioè agire con agio, senza attaccarci al risultato di queste azioni.

Se continuate così potrete guidare tutta l’assemblea” dice Wanshi, perché in definitiva ognuno ricerca il luogo della pace dello spirito, un luogo in cui i pensieri diventano chiari, dove ci si siede in silenzio e possiamo passeggiare con agio.

Vi auguro di continuare a praticare così, di avere una pratica che sia essa stessa, nell’istante, liberazione.

Traduzione: Maresa Myogen Di Noto
Annotazione: Marco Kokyo Viale, Marco Rinaudo.