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Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
7/8 febbraio 2004
Sesshin di Milano
diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

Insegnamento del Maestro Wanshi


Sabato 7 febbraio 2004, kusen delle 8:30

Durante zazen, tornate alla concentrazione sulla vostra postura; inclinate il bacino in avanti, prendete fermamente appoggio con le ginocchia al suolo, rilassate il ventre e lasciate che il peso del corpo poggi sul vostro zafu; il bacino è sufficientemente inclinato in avanti da dare l’impressione che l’ano non tocchi il cuscino. A partire da questa base, da questa seduta, si estende la colonna vertebrale verso l’alto, rilassando tutte le tensioni della schiena; si estende la nuca spingendo verso il cielo con la sommità del capo, il mento è rientrato e le spalle completamente rilassate.

Lo sguardo è solamente appoggiato davanti a sé verso il suolo, senza fissare un punto particolare; non chiudete gli occhi: se non vi attaccate agli oggetti visivi davanti a voi, questi oggetti non vi disturberanno; lasciateli semplicemente così come sono, senza afferrarli né respingerli.

La stessa cosa vale per i suoni: oggi c’è rumore, ma se lasciate i suoni così come sono, senza attaccarvi ad essi e senza detestarli, allora nemmeno il rumore disturberà il vostro zazen; al contrario sarà l’occasione per lasciare la presa, per abbandonare l’attaccamento al non-rumore, al silenzio. La lingua è contro il palato, arrestiamo tutti i nostri discorsi interiori, ci limitiamo semplicemente ad inspirare ed espirare con calma attraverso il naso essendo attenti alla respirazione.

La mano sinistra è nella mano destra, il taglio delle mani in contatto con il basso ventre e i pollici orizzontali, cioè senza tensioni e senza rilassatezza, proprio come il resto della postura.

Il Buddha ha insegnato la Via del mezzo; in zazen il mezzo si pone tra l’eccessiva tensione e l’eccessivo rilassamento. Quando si concentra l’attenzione sul contatto dei pollici, la mente si calma naturalmente, l’energia è centrata sotto l’ombelico nella zona dell’hara; in questo modo l’agitazione mentale si calma così come le emozioni.

L’autentico silenzio non è l’assenza di rumore, ma il silenzio interiore dello spirito che non si attacca a nulla, che è in unità con la realtà di ogni istante così com’è. Poiché "così com’è", è senza sostanza, del tutto impermanente, come lo spirito in zazen che non ristagna su nulla e che diventa così del tutto chiaro, libero. Il Maestro Wanshi chiamava questo spirito che si armonizza con la realtà così com’è il "campo del vuoto, della vacuità" e diceva che non può essere coltivato né provato, cioè non è prodotto da zazen; lo spirito essenziale è Buddha, che non è prodotto da zazen, ma è rivelato da zazen. A volte le persone pensano che zazen sia imparare a fare il vuoto nel proprio spirito e si sforzano di sopprimere i loro pensieri, le loro emozioni, ma il vuoto non si fa, semplicemente è l’autentica natura di tutti i fenomeni, ha solo bisogno di essere riconosciuto, rivelato, ma non prodotto.

Se crediamo che zazen debba produrre qualche cosa, allora zazen diventa una sorta di fabbricazione dell’ego, mentre precisamente in zazen cessiamo di produrre qualche cosa, e smettiamo anche di volere qualche cosa, non si fa nulla e ci si armonizza così naturalmente con tutte le cose.

Sabato 7 febbraio 2004, kusen delle 11:00

Durante zazen non facciamo nulla di speciale, siamo semplicemente totalmente seduti, totalmente in unità con la posizione del corpo nella postura seduta. Non si è tesi verso qualche cosa, così il corpo può ritrovare il giusto tono. Si è immobili, dato che non c’è nulla di speciale da perseguire; siamo ben seduti nella postura seduta, non c’è bisogno di essere altrove, di voler ricercare qualcosa d’altro, penetriamo completamente la realtà di questa vita di questo istante. Quando si inspira si diventa completamente uno con l’ispirazione, quando si espira si espira totalmente senza trattenere nulla, così la respirazione diventa un’attività completa in se stessa, quando ha tutta la nostra attenzione.

La pratica del “solo sedersi” è il nostro modo di armonizzarci con la realtà così com’è, l’occasione di realizzare che essa è completa, così come diceva il Maestro Wanshi, a proposito del campo del vuoto, della vacuità : “Sin dall’origine, sin dall’inizio, è assolutamente completa, perfetta, senza impurità, chiara sino al fondo”. Questo campo non è un luogo speciale che dobbiamo raggiungere, che sarebbe esterno a noi, ma si tratta di noi stessi.

La maggior parte degli esseri umani ha costantemente un sentimento d’insufficienza, di mancanza di qualche cosa, di non essere perfetti, di non essere amati per ciò che si è, e quindi di dover provare sempre qualche cosa, essere il migliore, il più bello, il più forte, il più ricco, sempre più rispetto a qualche cosa. Non è mai sufficiente, abbastanza, allora se si perde qualche cosa, la salute, la gioventù, il denaro, la posizione sociale, questo diventa una specie di catastrofe, e tutti sono più o meno ansiosi che questo possa accadere.

Se volete ritrovare l’autentica pace dello spirito, dovete realizzare che siete perfettamente completi così come siete, non come immaginate d’essere, ma come siete in realtà, e come siamo in realtà è ciò che rivela zazen; ad un tempo limitati, siamo in un modo o in un altro, con le nostre caratteristiche, la nostra storia, il nostro karma che ci rende differenti dagli altri, e contemporaneamente costantamente collegati a tutti gli esseri; in questo siamo totalmente simili agli altri, questo significa che siamo tutti in una relazione d’interdipendenza che esclude la solitudine.

Quando siamo seduti in zazen è possibile abbracciare questi due poli dell’esistenza: ad un tempo unici, soli di fronte noi stessi, e al tempo stesso totalmente con gli altri, condividendo la stessa esistenza. Questa realtà si attualizza ad ogni istante della vita, sempre mutevole e contemporaneamente sempre la stessa, al di là dell’eccesso come della mancanza. Quando accettiamo questa realtà, quando ci armonizziamo con essa, il nostro spirito può divenire totalmente calmo, cessando di voler perseguire o fuggire qualunque cosa, ritorna ad essere ciò che è in realtà, senza impurità, completamente chiaro sino al fondo.

Sabato 7 febbraio 2004, mondo

- Ho un’amica che è una monaca tibetana e ha rivolto una domanda ad un amico monaco zen: “Tu credi nelle vite passate?” e lui ha risposto: “In questa vita no, ma in quella prima si!”. Vorrei sapere il tuo pensiero a questo proposito.

- E Tu ? Che cosa credi tu ?

- Credo che finora ho incontrato dei buoni maestri, quello che ho seguito da più tempo sei tu, non ho ancora nulla da proporti…

- Tu che cosa credi a proposito della tua domanda ?

- Credo che mi aiuterebbe a capire con quale prospettiva ci si deve porre in rapporto a questa vita e se esiste una vita precedente.

- Se è esistita una vita precedente, questo può esserti di aiuto a vivere questa qui ?

- Potrebbe aiutare ...

- In che senso ?

- Nel senso che il mio karma nel bene e nel male è dovuto a ciò che ho fatto nella vita passata.

- E allora ?

- Mi pacificherebbe ...

- Quindi per te può essere una buona credenza, allora non hai che da crederci.

L’insegnamento dello Zen non riguarda le credenze, ognuno è libero di credere ciò che vuole. Io non ho voglia di insegnare delle credenze, io insegno solo la pratica giusta di zazen qui e ora, e come vivere bene qui e ora, come vivere questa esistenza. Questo è l’oggetto dello Zen: come risvegliarsi all’autentico senso della nostra vita in questa vita. D’altra parte, è vero che la nostra pratica si svolge in una tradizione, in genere i monaci, a partire dal Buddha stesso, hanno creduto nell’esistenza di vite successive, è un po’ il contesto della nostra pratica. Nel buddhismo tibetano ha una grandissima importanza, in particolare per scegliere i successori dei maestri: si cerca dove nascono ed è un tipo di selezione per la trasmissione. Perché no? Se si prende un bambino, molto piccolo e lo si educa come un maestro dall’età di cinque anni diventa un maestro, non è necessariamente un cattivo metodo, ma non è il metodo dello Zen. Nello Zen non rigettiamo le credenze nelle vite anteriori, le si accetta, ma non ce ne occupiamo, ci concentriamo sul qui ed ora. Ma è vero, come credi, che se accettiamo che ciò che ci capita ora, le nostre caratteristiche, le nostre nascite, ecc., sono in gran parte condizionate dalle nostre vite precedenti, questo aiuta ad accettare la nostra realtà, soprattutto quando non è molto felice. A volte si ha l’impressione di essere vittime di ingiustizie, o che ciò che ci capita è assurdo. In questo caso la sofferenza è terribile, perché non possiamo conferire un senso a questa sofferenza; ma se diciamo che ciò che ci capita è il risultato di vite precedenti, questo aiuta ad accettare e soprattutto a sviluppare il senso della nostra responsabilità, a sentirci veramente responsabili della nostra vita. E’ la condizione per il progresso spirituale. Se pensiamo che ciò che ci capita sia a causa degli altri, della sfortuna oppure di cattivi demoni, allora non abbiamo nessun tipo di possibilità di trasformazione. Credo che sia una buona credenza, per questo ti dico: se ci credi, è bene. Ma il punto più importante nella pratica dello Zen è come rinascere ogni giorno, come evitare di sciupare la nostra giornata, come considerarla la cosa più preziosa, come non perdere il nostro tempo a cercare di ricordare le nostre vite anteriori. In ogni caso tutte le vite anteriori sono arrivate a ciò che siamo ora, tutti, in questo dojo. Tu sei qui davanti a me, stai facendo questo mondō, e io ti rispondo. Tutte le vite anteriori di tutto il mondo sono arrivate proprio in questo punto in cui siamo riuniti. Questo punto, qui e ora, contiene tutto il resto, contiene tutto il passato. Ma il passato non possiamo cambiarlo, possiamo semplicemente concentrarci a partire da ora. Lo Zen mette l’accento proprio sul non perdere l’istante presente. È la ragione per la quale si insegna sempre la concentrazione su tutti i gesti della vita quotidiana, anche i più semplici. Quando Joshu dice al suo discepolo: “Vai a lavare la tua ciotola”, questa è l’essenza dello Zen, è la maniera migliore per non sciupare questa rinascita nella quale siamo ora. Ma se passiamo troppo tempo a cercare di ricordare, di indovinare quale era la nostra vita precedente, sarebbe come qualcuno che volesse avanzare con un’autovettura guardando dallo specchietto retrovisore, si guarda solo dietro, non si guarda avanti, e questo è pericoloso.

Ma a volte anche guardare nel retrovisore è importante. Se non ci guardiamo potremmo avere delle brutte sorprese! Guardare nel retrovisore vuol dire comprendere bene che quello che ci capita ora ha delle cause, e un aspetto importante della nostra pratica è capire la causalità.

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- A Fossano mi hai dato una risposta a una domanda che avevo fatto sulla natura di Buddha e mi hai detto che è il corpo che deve capire. Questa risposta mi ha sconvolto nel senso che mi ha aiutato a entrare in maggiore intimità con la morte e l’impermanenza. E da un lato questa cosa ha i suoi effetti positivi perché mi sta aiutando ad una maggiore compassione, però mi spaventa, e mi sono accorto che per cercare di sfuggire a questa paura, continuamente cerco delle risposte a livello mentale. Quindi sono venuto a chiederti un aiuto.

- Cos’è questa paura? Di che cosa hai paura?

- In realtà ho paura a lasciare la presa. E so che però è l’unica cosa da fare.

- Lasciare la presa è lasciare la presa con il corpo e con lo spirito. Non è separato. Se vuoi capire troppo intellettualmente, è difficile. Si arriva ad un limite della possibilità di comprendere intellettualmente, è per questo che ti avevo detto di comprendere con il corpo. Questo non vuol dire che non si debba comprendere anche intellettualmente, ma non dobbiamo accontentarci di una comprensione intellettuale; non è sufficiente. Forse potrei risponderti con qualche cosa tipo: la natura di Buddha è l’interdipendenza, o: la natura di Buddha è ku la vacuità, o: la natura di Buddha è mujo, l’impermanenza, queste tre risposte sono giuste, sono ortodosse, ma anche se tu ricordi queste tre risposte, ora hai un sapere supplementare, ora sai che la natura di Buddha è l’interdipendenza, è ku, la vacuità. Ma che cosa fa sì che possa trasformare la tua vita ed evolverla a partire da questa comprensione ? Il problema è che se sappiamo solo a livello del linguaggio, delle parole, certo è già un passo avanti, ci aiuta, ma non è sufficiente. Perché tu puoi dire: sì, la mia vera natura è mujo, ma se il tuo corpo, il tuo comportamento, quasi a livello istintivo, non è capace di accettare mujo, allora ti trovi improvvisamente nella dualità: il tuo cervello intellettuale, la corteccia, lo capisce, capisce che bisogna accettare mujo, l’impermanenza, ma la parte più profonda, che è più vicina al corpo, respinge questo. Allora diventa un conflitto fra te che capisci intellettualmente e ciò che è incapace di vivere realmente, corpo e spirito insieme, e capire attraverso, con il corpo è molto importante: in definitiva è la cosa più importante. È quello che permette di abbandonare la presa. La mente non abbandona la presa, è costituita per esercitare un dominio sui fenomeni. Nell’evoluzione della vita, l’evoluzione del cervello sinistro e del mentale è avvenuta per esercitare il potere dell’uomo sul mondo, sulla natura. Dunque arrivare a dominare la natura, è il contrario dell’abbandonare la presa. Quindi se seguiamo il mentale, il cervello sinistro, possiamo esercitare un certo potere, ma non possiamo liberare noi stessi. Allora bisogna collegarsi con qualcos’altro, ed è questa la rivoluzione dello Zen, arrivare a pensare con il corpo, al di là del mentale. E’ la sola possibilità per uscire dal circolo vizioso dell’attaccamento. Ma qui sto nutrendo il tuo mentale. Ti do semplicemente delle buone ragioni per andare al di là, per aver fiducia nel fatto che è più importante praticare zazen in silenzio, e contattare la natura di Buddha nello zazen. Comprendere che la natura di Buddha non è qualcosa che possiamo apprendere, non possiamo afferrarla. In definitiva non c’è natura del Buddha, non c’è. È quello che aveva risposto Konin al giovane Eno quando era arrivato. “Cosa vieni a fare qui?” “Vengo per realizzare la natura di Buddha”. “Tu vieni dal Sud, le persone del Sud non hanno natura di Buddha”. Mubusho. È divenuto il grande insegnamento sulla natura di Buddha. La natura di Buddha è mu, niente. Non possiamo afferrarla, e questo il mentale lo rifiuterà sempre. Allora dice: “Ho capito: è mu!”

- È l’ego che si illude di qualcos’altro.

Allora “l’apprendimento del corpo” è inconscio, è naturale?

- È al di là del conscio. Non è incoscio, è al di là del conscio.

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- Da un po’ di tempo mi sembra che più tento di rendermi disponibile ad aiutare gli altri, sto veramente aiutando me stesso. Sto imparando a chiedere aiuto agli altri per me stesso. Mi sembra il contrario di come un Bodhisattva dovrebbe comportarsi…

- No. L’aiuto è uno scambio. Se vuoi essere nella posizione di colui che aiuta e non vuol essere mai aiutato, questa sarebbe una posizione d’orgoglio. Vuol dire che vuoi essere sempre nella posizione alta: “Io sono forte, saggio, compassionevole, salvo tutti, aiuto tutti, ma non ho bisogno d’aiuto”. E questo non è giusto. E’ importante anche riconoscere umilmente che anche io ho bisogno d’aiuto e che, ad esempio, se aiuto qualcuno, questa stessa persona mia aiuta, perché mi offre l’occasione di fare un fuse. In ogni caso è uno scambio, ma bisogna riconoscerlo, bisogna vederlo, accettarlo. E alla fine non c’è nessuno che aiuta e nessuno che è aiutato, è semplicemente uno scambio, non qualcuno che è in una posizione alta e qualcun altro che è in una posizione bassa. C’è qualcuno in una determinata situazione, che dice una parola, che fa un gesto e un altro che lo riceve, ma è allo stesso livello.

- Per esempio, sto facendo parte di un gruppo di auto-aiuto. Ho scoperto che se tu chiedi aiuto, anche se talvolta è difficile chiedere aiuto a causa dell’ego, dopo, quando lo ricevi, ti viene da ripagare in qualche modo.

- Esattamente, è questo lo scambio. Ad esempio nel fuse, quando i monaci fanno la questua, con la ciotola, la persona che dona è lei che dice grazie, non colui che riceve. Colui che dona l’aiuto riceve, si può dire, il merito, ma non ne è cosciente. Non dice: “Ah, ho fatto un dono, ho buoni meriti”. Ma spesso, nel momento in cui si dona, c’è una gioia nel donare e un ringraziamento per aver avuto questa occasione. Ed è per questo che è allo stesso livello. Se è difficile per te chiedere, devi chiederti perché è così difficile. Hai già compreso che è l’ego che ha difficoltà, che ama essere onnipotente e che ha bisogno degli altri. Allora chiedere aiuto è abbandonare l’ego, ed è una buona pratica; una buona pratica per sé, abbandonare l’ego, ed è una buona pratica per gli altri, perché offre loro l’occasione di fare un fuse, di donare tempo ed energia. Tutti coloro che hanno difficoltà a chiedere aiuto dovrebbero riflettere su questo, non esitare a chiedere di più. Evidentemente non bisogna esagerare nell’altro senso! Non diventare come dei bambini che chiedono sempre. “per favore, dammi questo, dammi quello”. È una questione di equilibrio.

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- Volevo chiedere perché nel Sangha dello Zen sento così poca gioia.

- Tu stesso non senti gioia ?

- Si. Sento sofferenza, concentrazione, sonnolenza, ma non gioia.

- Per me è diverso. Per me è una grande gioia praticare zazen. E’ proprio la sensazione che ho percepito dal primo momento che ho praticato. Ed è proprio questo che forse mi convince nella pratica. Ma se non possiamo percepire la gioia nella pratica possiamo chiederci perché: è un buon koan. Quando percepiamo della gioia, lo spirito diventa leggero, e forse molte persone non hanno lo spirito abbastanza leggero. Se non abbiamo lo spirito leggero è forse perché vogliamo acchiappare qualche cosa, vogliamo risolvere le nostre sofferenze, ottenere qualche cosa. Allora, c’è uno stimolo per la concentrazione, ma è una concentrazione con un secondo fine, non è mushotoku. E in questo modo, evidentemente, non è possibile realizzare un’autentica liberazione; tutta la pratica diventa come un lavoro, qualcosa che è difficile. E’ il sintomo di una pratica che non è mushotoku. Se lo spirito diventa mushotoku e abbandona ogni secondo fine nella pratica allora possiamo sentirci subito leggeri, molto liberi, e la pratica diventa come un gioco. Proprio come un gioco di bimbi. Il gioco è un’attività libera senza secondi fini, per ottenere qualche cosa. Questo concetto esiste, è menzionato nello Zen: Ju Ge Zanmai. Zanmai è la concentrazione, Ju Ge, il gioco. È la concentrazione che diventa un gioco, cioè la concentrazione senza oggetto, il dispiegarsi di un’attività veramente libera. È quello che ti auguro di realizzare. Io vedo molta più gioia nello Zen di te! Perché in effetti vediamo il mondo attraverso i nostri occhi. Se tu hai della gioia in te stesso, vedi molta gioia intorno a te, se non hai gioia non la vedi. È come qualcuno che mette degli occhiali neri e dice: “Accidenti, ma qui è buio!”. Ma non è esattamente buio, si tratta solo di togliere gli occhiali.

Sabato 7 febbraio 2004, kusen delle 17:00

Alla fine di una giornata come questa, talvolta il corpo diventa dolorante e si arriva a desiderare che questi dolori scompaiano. Si ha l’impressione che, se soltanto non si avesse male alle ginocchia, allora si potrebbe fare veramente un buon zazen, ma a causa del male alle ginocchia un buon zazen non è possibile. Questo ha a che vedere con il rifiutare la realtà presente e desiderare altre cose. È’ il risultato del continuare zazen con uno spirito ordinario, con lo spirito dell’ego, che ama questo, che non ama quello, che ama il silenzio e che non ama il rumore, o il contrario; che sceglie, che rifiuta e che per la maggior parte del tempo trova qualcosa che non va bene. Con questo spirito dal mattino alla sera è impossibile essere gioiosi, perché ci sarà sempre qualcosa a disturbarci: un avvenimento, un pensiero, un incidente; l’ego è sempre disturbato, insoddisfatto. Allora si tratta di praticare uno zazen che sia un’autentica rivoluzione: cioè abbandonare questo atteggiamento dell’ego, della scelta, del rifiuto, di amare o non amare. Per questo si tratta di diventare realmente intimi con ciò che avviene, senza opposizioni. Accettare il dolore così come è, senza drammatizzare la situazione: è perfettamente normale avere male alle ginocchia alla fine di una giornata di zazen. Questo male alle ginocchia non è di troppo. E una postura confortevole non manca. Vuol dire che viviamo questa situazione presente senza rimpianti e senza attendere qualche cosa. È lo spirito dell’autentico zazen.

Il Maestro Wanshi diceva: “ Là ove ogni cosa è corretta e totalmente sufficiente, allora raggiungete l’occhio puro che illumina completamente e che realizza la liberazione. Non è più difficile del voltare la testa e guardare nella direzione opposta per uscire dal mondo dell’ego e penetrare il mondo del Buddha”. Raggiungere l’occhio puro è smettere di proiettare i nostri desideri e le nostre avversioni sul mondo che ci circonda. Allora si può essere uno con ogni situazione e accettare gioiosamente ogni istante così come è. È realizzare l’autentica liberazione senza sfuggire a questo mondo dei fenomeni, realizzare il nirvana nel mezzo del samara, senza fuggire la sofferenza né gli esseri; senza lasciarsi nemmeno oscurare dalla sofferenza, perché questo non ha mai aiutato a risolverla. Proprio ora: restate completamente in unità con la vostra respirazione e vivete ogni istante della fine di questo zazen inspirando ed espirando completamente. Semplicemente questo.

Domenica 8 febbraio 2004, kusen delle 8:30

[ Purtroppo, a causa di un problema tecnico con il registratore, la trascrizione del kusen di questo zazen non è completa in qualche sua parte. Ce ne scusiamo. ]

Quando si impara a praticare zazen, si direbbe che ci sono un mucchio di cose da fare, si insegnano i punti importanti della postura (......). E certamente bisogna fare questo, proprio come bisogna estendere la colonna vertebrale, rientrare il mento, (..............).

Ci si concentra sulla respirazione, qualche volta si insegna che bisogna andare fino al fondo di ogni espirazione, spingendo bene sulla massa addominale verso il basso, e certo è giusto praticare questo, si osservano i pensieri che appaiono, si osserva che sono senza sostanza, impermanenti, proprio come l’ego che li osserva, e li si lascia passare. Tutte queste sono cose che noi facciamo, ( .........), per questo diciamo che quando facciamo zazen, pratichiamo zazen.

Ma finché pratichiamo così, rimaniamo all’esterno della porta della liberazione; questo modo di praticare ci conduce fino alla soglia, ma non ci permette di entrare perché c’é sempre un ego che (.....) la volonta’, che vuole che la postura sia in questo modo, in quell’altro, facciamo una valutazione (…): ora la mia respirazione é troppo corta, ora la mia respirazione non scende fin sotto l’ombelico, così non va, devo fare in un altro modo, devo sforzarmi di fare in un altro modo, così non è soddisfacente.

Non si accetta la realtà così com’è , si é nell’esercizio per arrivare a (...) : una migliore respirazione, una posizione migliore, una condizione dello spirito più giusta.

Certo, fa parte della nostra pratica agire in questo modo, ma se rimaniamo qui, a questo punto, la nostra pratica è limitata, limitata alla pratica, non vi è realizzazione, poiché zazen ci fa realizzare che non vi è nulla da realizzare, che tutto è già realizzato, non vi e’ nulla da ottenere, tutto è qui, non vi è nulla da divenire, siamo già questo. E’ l’essenza dell’insegnamento di Wanshi, che ho evocato fin dall’inizio della sesshin; quando diceva: “Il campo del vuoto non ha bisogno di essere dimostrato, è al di là della pratica e del ragionamento, giusto la realtà della nostra vita di ogni istante; esiste senza bisogno di essere coltivato; e’ sperimentato senza bisogno di essere dimostrato, provato. E’ completo fin dall’origine, (…), chiaro fino al fondo.”

Dobbiamo smettere di creare turbamento, oscurità, e anche quando creiamo turbamento, questo turbamento è senza sostanza, non c’è bisogno di volerlo respingere.

Durante zazen ci si siede in modo stabile, equilibrato, si prende la miglior postura con il corpo che abbiamo, non è il caso di entrare in competizione con noi stessi o con gli altri per avere una migliore postura. Si diventa la nostra postura, (…), con il nostro corpo così com’è, è sufficiente, senza bisogno di essere differenti.

La respirazione può essere corta o lunga, in generale si vorrebbe che la respirazione fosse più lunga, più profonda, ma il Buddha insegnava solo una cosa, vedere la respirazione così com’è, è sufficiente. Si abbandona ogni progetto di essere altrimenti. Allora lo spirito diventa completamente libero, libero da ogni avidità, di essere (…) l’odio di essere così come si è, insufficienti, non adeguati.

Questa diventa l’autentica liberazione e introduce il cambiamento più profondo, molto più profondo di ciò che cerchiamo di realizzare con la nostra volontà.

Si tenta di abbandonare la presa (…), Shin jin datsu raku, corpo e mente abbandonati alla pratica così come è ad ogni istante.

“Il risveglio, diceva Wanshi, (…) implica il mettere questo in pratica, realizzarlo, e la stabilità si sviluppa praticandolo, cioè essendo autenticamente l’accettazione di ciò che è, di istante in istante.”

Ma spesso, quando si sente questo insegnamento, si pensa: “Ma questo è il ristagno, il non progredire”.

In realtà è il contrario. E’ a partire da questa pratica che un’evoluzione può apparire, al di là dei nostri sforzi, del nostro piccolo ego.

Domenica 8 febbraio 2004, kusen delle 11:15

Durante zazen, si rimane attenti alla propria respirazione, proprio così com’è, e questa attenzione alla respirazione ci riporta all’istante presente - proprio quello che è - e lo viviamo, questo istante, senza cercare di prolungarlo, proprio come un ponte tra il passato e il futuro. Ogni istante differente, ma sempre pienamente presente. E per questo, anche se abbiamo la memoria del passato, non trasportiamo la memoria del passato nel presente. Tutto ciò che è passato, è passato e non vi diamo più importanza. Tutta la nostra attenzione è concentrata sul qui ed ora della vita, senza respingere il passato, senza respingere l’avvenire, ma senza essere attirati da essi, poiché il passato e l’avvenire sono puramente immaginari, qui ed ora solo delle costruzioni mentali.

La vita del Buddha, tale e quale il Buddha l’ha insegnata, è la vita liberata dalle nostre costruzioni mentali, la vita in armonia con la realtà, cioè la vita vissuta al presente, in contatto reale con le nostre attività, la nostra pratica di zazen, il nostro ambiente, gli altri praticanti nel dojo. E’ questo che prende forma per noi, qui ed ora. Anche se un giorno siamo nati, anche se un giorno moriremo, nascita e morte non hanno sostanza, è come la comparsa e la scomparsa dei fenomeni durante zazen, non lasciano traccia.

Le persone amano festeggiare i compleanni, ma nello zen noi celebriamo l’istante presente che è al di là della nascita e della morte, la vita eterna in ogni istante, al di là del passato e del futuro, liberata dai rimpianti e dalle attese, la vita assoluta, completa. Il tempo della sesshin è un tempo nel quale possiamo sperimentare ciò in modo particolare ma ciò non è limitato al tempo della sesshin.

Il maestro Wanshi diceva “Quando voi recidete il prima e il dopo, allora realizzate la totalità, cioè la vita senza separazioni, completa, nella quale ciò che è praticato e ciò che è praticato al di fuori, non si oppongono più ma si completano totalmente”.

Vuol dire che non ci sono tempi morti, il tempo diventa la vita.

Traduzione: Maresa Myogen Di Noto
Annotazione: Chiara Pandolfi, Marco Viale, Guglielmo Cappelli