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L'associazione zen bodai dojo è membro dell' UBI, Unione Buddhista Italiana

 
Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
3/11 luglio 2004
Campo estivo di Maredsous
diretto dal Maestro Roland Yuno Rech



Sabato 3 luglio 2004, kusen delle 7:00

Durante zazen ponete tutta la vostra energia e la vostra attenzione sulla postura del corpo, concentrandovi in particolare sui punti importanti della postura. Inclinate il bacino in avanti e prendete appoggio con le ginocchia al suolo. Lo zafu deve essere sufficientemente alto per consentire che l’inclinazione del bacino in avanti sia fatta senza sforzo, senza usare la forza muscolare.

Si è seduti come se si volesse che l’ano non toccasse lo zafu e il ventre è rilassato. E’ questo modo di sedersi che conferisce una base stabile alla postura, un buon radicamento.

Fate attenzione a non arcuare troppo le reni perché questo avrebbe l’effetto di bloccare la vostra respirazione.

Spesso, in particolare per i principianti, la concentrazione sulla postura richiede molti sforzi, ma questi sforzi non devono essere eccessivi. Dovete poter essere rilassati nella vostra postura e poter respirare liberamente, in maniera fluida.

A partire dalla vita si estende la colonna vertebrale rilassando tutte le tensioni della schiena, si estende la nuca rilasciando le tensioni delle spalle, il mento è rientrato e la testa verticale, non cade in avanti. Le orecchie sono sulla verticale delle spalle, il naso sulla verticale dell’ombelico. Lo sguardo è posato davanti a sé verso il suolo, gli occhi semichiusi. Non ci si attacca agli oggetti visivi davanti a sé, non si cerca neppure di evitarli chiudendo gli occhi. In questo modo si può vedere tutto ciò che ci circonda senza esserne disturbati.

Il viso è rilassato, in particolare le mascelle,la lingua è posta contro il palato. Il contatto della lingua contro il palato vi aiuterà a interrompere le ruminazioni mentali che spesso sono un dialogo interiore che prosegue senza sosta.

In zazen non si pensa né al bene né al male, non si giudica, si abbandonano tutte le preoccupazioni della vita quotidiana, non si intrattengono i pensieri, né si cerca di eliminarli. Li accogliamo così come vengono, li osserviamo un istante e li lasciamo passare. Lo spirito non dimora su nulla, ma questo non vuol dire essere privi di coscienza. Si prende rapidamente coscienza di ciò che è presente e si lascia passare. In questo modo lo spirito può essere sempre disponibile, fresco, nuovo ad ogni istante, come uno specchio.

La mano sinistra è nella mano destra, i pollici orizzontali e il taglio delle mani in contatto con il basso ventre. Il contatto tra i pollici è un buon punto di concentrazione. Una volta presa correttamente la postura potete porre la vostra attenzione sul contatto tra i pollici, che non formano tra loro né montagne né valli. Questo contatto aiuta ad avere uno spirito equilibrato, che non cade né in sanran, l’eccessiva agitazione, né in kontin, la sonnolenza e il torpore.

Anche la respirazione può aiutarvi a ritrovare questo stato d’animo stabile. Durante zazen invece di seguire i propri pensieri, si segue il flusso della propria respirazione, quando si inspira si è in totale unità con l’ispirazione, si diventa un corpo e uno spirito che inspira. Si inspira con tutto il corpo, non solo con la parte alta dei polmoni.

Quando si espira si è completamente concentrati sulla espirazione, in particolare si deve andare al fondo di ogni espirazione, e, se è il caso, potete accompagnarla con una spinta sulla massa addominale verso il basso.

E’ importante apprendere ad avere questa espirazione profonda, senza voler trattenere qualcosa, riuscire ad abbandonare completamente la presa durante l’espirazione. Di solito, alla fine dell’espirazione lo spirito ritorna al punto zero di non-pensiero, è il momento di abbandonare la presa rispetto ai propri pensieri.

Quando l’espirazione è profonda l’inspirazione a sua volta diventa profonda. Se si vuole trattenere per sé il proprio soffio, se si ha paura di lasciarlo, si finisce con l’asfissiarsi. E’ il caso di molte persone che vivono nella paura, nello stress, che temono di non ottenere ciò che desiderano, di non riuscire. La respirazione di zazen ci insegna che donare viene prima di ricevere, si comincia con il prendere per donare nuovamente tutta l’aria che si è ricevuta. In questo modo si crea spazio e si è disponibili per ricevere. La respirazione è uno scambio costante tra dare e ricevere. Contrariamente a ciò che il nostro egoismo ci fa temere, donare non è una perdita, è la condizione e la possibilità di ricevere. Nel donare vi è il ricevere, allo stesso modo che nell’abbandonare i propri pensieri nell’espirazione vi è il ricevere il risveglio. Sperimentare tutto ciò nella vita quotidiana, durante le sesshin, è il senso della nostra pratica. Significa armonizzarsi con la realtà. Con l’ordine cosmico.

Sabato 3 luglio 2004, kusen delle 16:30

Quando si offre la propria energia e la propria concentrazione alla pratica di zazen l’atmosfera nel dojo diventa meravigliosa, calma, tranquilla, ognuno può ricevere l’influenza di questa atmosfera. L’effetto di questo dono alla pratica è immediato e del tutto al di là di sé e degli altri. Quando si offre la propria attenzione e la propria energia alla Via, questo va al di là del concetto di sé e di altri. La cosa è molto diversa se si pratica per sé aspettando dei risultati, perché allora la pratica diventa tesa. L’attesa provoca tensioni, invece se non ci si aspetta nulla lo spirito diventa tranquillo e possiamo ricevere tutto, al di là di quanto si possa immaginare.In questo modo la pratica diventa immediatamente realizzazione, a partire dal dono che non attende ricompensa, ringraziamenti e che ha il potere di guarirci dalla nostra avidità, derivata dalla nostra ignoranza. Non si tratta di ignorare qualcosa che si dovrebbe sapere. L’ignoranza fondamentale consiste nel non avere sperimentato, vissuto completamente la consapevolezza che in realtà non ci manca nulla. Certo, nella vita quotidiana proviamo ogni sorta di bisogni, ma fondamentalmente possiamo accontentarci di essere pienamente seduti, in unità con questo istante presente, in una condizione che si pone al di là di ogni attesa. E’ proprio sperimentando questa condizione che è possibile aiutare veramente gli altri e se stessi, risvegliandoci alla nostra realtà fondamentale, che è al di là dell’eccesso e della mancanza, che consiste nell’essere assolutamente così come siamo e nel condividere questo con tutti gli esseri. A quel punto diventa possibile comunicare questa fiducia nella vita risvegliata che ha il potere di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza, questo significa donare fiducia, così come siete, ognuno di voi è Buddha. Tutto ciò non è oggetto di credenza, ma qualcosa che ognuno può sperimentare offrendo totalmente se stesso alla pratica, senza aspettarsi nulla. Inaspettatamente tutte le complicazioni mentali scompaiono e si può raggiungere uno spirito stabile, radicato e in pace. Questo spirito non dipende nemmeno dalla postura seduta, è possibile realizzarlo anche essendo sdraiati o in piedi, essendo in totale unità con l’inspirazione quando si inspira, con l’espirazione quando si espira, senza rimpiangere il passato, senza aspettare il futuro, allora questo istante, la pratica di questo istante diventa assoluta.

E’ il motivo per cui molti tra di voi sperimentano la sensazione di essere tornati a casa quando vi sedete in zazen nel dojo.

Sabato 3 luglio 2004, mondo

- L’anno scorso ho dovuto lavorare molto, ho sentito molto lo stress e la mia pratica è stata molto difficile. Negli anni precedenti lavoravo part-time e questo favoriva la mia pratica, ma in un certo senso avevo paura che fosse scegliere una via facile. Non so bene cosa fare, c’é un conflitto tra il lavorare molto e lavorare un po’ meno.

- La vera difficoltà non è dove immagini. Il Maestro Dôgen diceva: “La via dello Zen non è una via facile e soprattutto non è una via per coloro che amano la facilità.” Quando si sente questa frase si immagina che la pratica debba essere dura, che si debba praticare zazen per dieci o quindici ore al giorno, lavorare, fare samu senza sosta....non è così. La vera difficoltà, e Dôgen lo precisa subito dopo, consiste piuttosto nel giungere ad armonizzare il corpo e lo spirito, trovando la vera armonia nella vostra vita, è questo che è difficile, ma è ciò che è importante...non è una questione di quantità, ma di stato d’animo con il quale si lavora, si pratica. Spesso si è stressati perché si attendono risultati dal proprio lavoro, riconoscimenti, promozioni, un salario adeguato, e improvvisamente si teme di non riuscire, si è inquieti. A questo stato si aggiunge il fatto che gli altri possono sfruttare questa condizione, i superiori, ad esempio, che usano questo come una carota e al tempo stesso come un bastone con il quale si fanno camminare gli asini. Disgraziatamente il mondo funziona in questo modo, per questo motivo c’é molto stress. La stessa cosa avviene nella pratica dello zen, se praticate zazen aspettando il satori, o se volete ottenere i meriti della pratica, con questo stato d’animo siete già condannati a non realizzarli. E' come se correste verso sud per andare verso nord. Improvvisamente la pratica diventa stressante, si fanno tanti sforzi e non si arriva a niente. Allora ci si colpevolizza…forse non pratico abbastanza...la mia pratica non è energica, dura, allora si aumentano le ore di zazen e ci si esaurisce in una pratica che è la cultura dell’avidità, come il lavoro, è la stessa cosa. In questo caso non c’é nessuna vera liberazione, nessun risveglio. Invece, se si fa il proprio lavoro per il lavoro stesso, senza aspettarsi nulla, come un dono, un servizio reso alla collettività, allora il lavoro può diventare armonioso. Non ci si lascia attrarre da promesse di ricompense, dalla paura delle punizioni o cose simili. Non si tratta più di dire a se stessi: devo lavorare molto, ma piuttosto devo lavorare armoniosamente, e in quel momento il lavoro diventa veramente efficace, prima di tutto perché ci si sente bene, si è felici di lavorare, e anche nei confronti degli altri le cose vanno meglio. Roos mi parlava proprio di questo, lei ora lavora a tempo parziale e mi diceva che il suo lavoro è diventato come un gioco e che va molto bene. Oggi ci sono moltissimi disoccupati e chi lavora è aggrappato al proprio lavoro con la paura di perderlo, mentre i padroni sfruttano questo fatto. In Francia ad esempio avevamo le trentacinque ore ma attualmente si sta rimettendo tutto in questione, si sta dicendo che la disoccupazione in Francia è causata dalle trentacinque ore, che esiste disoccupazione perché si limita il lavoro. E’ folle.E' bene condividere il lavoro, non voler fare tutto, lasciare anche il posto agli altri, perché in questo modo si può lavorare in modo armonioso e il lavoro stesso diventa risveglio, come un samu. Certo bisogna cercare di essere convincenti, occorre che questo venga accettato dagli altri, non è sempre facile, ma a mio avviso occorre andare in questa direzione. E’ questa la vera difficoltà, trovare questa armonia in se stessi e condividerla con chi ci circonda, lo stesso vale per la pratica di zazen. Poter praticare uno zazen in cui ogni minuto è un minuto di satori, non un minuto di sforzo in vista di uno scopo da raggiungere. Questo significa operare una rivoluzione nel proprio spirito, mushotoku, senza attese. Si ripete spesso tutto ciò, ma occorre viverlo, sperimentarlo. E’ difficile perché va contro le nostre abitudini mentali consolidate, ma quando lo si sperimenta, anche per un breve periodo di tempo, è possibile comprendere quanto sia vero, è quello il momento in cui la pratica diventa armoniosa. Dunque non bisogna ricercare la difficoltà dove non c’é.

Domenica 4 luglio 2004, kusen delle 7:30

In zazen siamo rivolti verso il muro, lo sguardo è semplicemente posato davanti a sé verso il suolo. Non ci si volge verso la natura per contemplarla, né verso gli altri per raggiungere qualche cosa. Le mani sono nella posizione di Hokkai jo in, non afferrano nulla e non fabbricano nulla. Lo spirito non si impadronisce dei pensieri che sorgono di istante in istante. Non si attende nulla di speciale.

Qui la pratica di zazen è minimalista, è tornare alla totale semplicità, al contrario della nostra vita quotidiana, nella quale pensiamo di dover fare molte cose, lavorare sempre di più, avere un maggior numero di attività, di relazioni, sempre più cose da contemplare senza averne mai abbastanza. In zazen si può sperimentare che sedersi semplicemente e respirare con calma è sufficiente. Possiamo imparare ad essere soddisfatti con poco, semplicemente essere lì e respirare con calma, essere con gli altri senza chiedere loro nulla. Non aspettiamo nemmeno la Via.

Questa è la suprema pratica del dono, lasciare la Via alla Via. Anche ciò che per i praticanti di zazen ha il valore più alto è lasciato. Anche ciò che per noi che pratichiamo zazen ha il valore più alto, ciò che è più prezioso, è lasciato.

Questa è la grande pratica del fuse, del dono, sperimentare che non abbiamo bisogno di afferrare o di accumulare nulla per essere felici. Questa era la raccomandazione del Maestro Ryokan. E’ a partire da questa realizzazione che gli altri possono essere veramente aiutati. Non abbiamo bisogno di aiutare gli altri, né di esercitare un’influenza nei loro confronti. Gli altri sono lasciati agli altri, anche questa è una forma di fuse, è un invito rivolto a ciascuno di noi per trovare in sé il proprio autentico tesoro, che non può essere misurato, né donato o trasmesso e che ognuno può realizzare, perché noi siamo 'quello'.

Domenica 4 luglio 2004, kusen delle 16:30

In zazen continuate a concentrarvi sulla vostra postura. Inclinate il bacino in avanti, prendete appoggio con le ginocchia al suolo, rilassate il ventre e concentratevi sull’espirazione. E’ importante ritrovare costantemente questa grande stabilità della postura. La postura di zazen è spesso paragonata a una montagna ed entrare nella montagna significa entrare nel mondo che si pone al di là delle costruzioni umane. Entrare veramente nella postura di zazen, diventare la postura stessa permette di stabilizzare l’attività mentale. Questo non significa che non ci siano più pensieri o emozioni. Intorno alla montagna di zazen vanno e vengono ogni sorta di nuvole, talvolta la montagna stessa sparisce tra le nuvole. Essa però resta sempre perfettamente stabile, può accogliere tutti i climi, il sole, la pioggia, la neve, le nuvole. Ritrovare costantemente la stabilità della postura permette di sviluppare uno spirito accogliente e poiché non si teme di essere trascinati dai fenomeni, è possibile accettarli così come sono, proprio come le montagne, che finiscono sempre con il lasciarle passare. Il Maestro Ryoji diceva: “Una persona della Via fondamentalmente non dimora su nulla, realizza uno spirito libero che non ristagna su nulla.” E aggiungeva: “Le nuvole bianche sono affascinate dalle montagne verdi.”Le nuvole bianche, in questo caso, non sono solo le illusioni che vanno e vengono durante zazen, sono anche l’immagine del monaco zen, completamente libero, che non dimora su nulla, ma affascinato dalla montagna verde, libero ma stabile e radicato nella pratica della postura, che non dimora su nulla, ma presente nella realtà, qui ed ora, grazie alla concentrazione sulla postura. Quando si trova questa stabilità seduti in zazen è possibile entrare davvero nel mondo dei fenomeni, impegnarsi nel mondo sociale senza essere turbati dall’agitazione di quel mondo. E’ questo il senso profondo del venire a praticare una sesshin, ritrovare un radicamento, una stabilità in se stessi che consenta di ritrovare uno spirito fluido. Coloro che hanno uno spirito rigido mancano di stabilità, di radicamento, e di conseguenza si aggrappano alle nuvole invece di diventare la montagna. Venire a praticare una sesshin significa penetrare nella montagna, divenire la montagna, ritrovando così la libertà interiore, potendo fare fronte a tutti i fenomeni interiori della nostra vita senza drammatizzare nulla, senza lasciarsi ossessionare da nulla, vedendo semplicemente la realtà così come è. La natura ci insegna così ad abbracciare le nostre polarità. Occorre ritrovare un radicamento e mantenere una grande flessibilità nell’essere intimi con noi stessi, essere aperti agli altri, stabili, accettando al tempo stesso l’impermanenza.

Domenica 4 luglio 2004, mondo

- Nello zen si dice che corpo e spirito sono allo stesso tempo...

- …in unità.

- Si dice anche di abbandonare il corpo e lo spirito. Capisco l’uno, comprendo l’altro, ma non riesco a trovare il legame tra i due.

- Tuttavia è proprio questo il cuore della pratica di zazen. Penso che sia difficile da capire intellettualmente proprio perché è l’intelletto a creare la separazione, poiché funziona sempre attraverso la separazione e la creazione di distinzioni, discernendo certi aspetti della realtà e nominandoli con concetti. Si nomina il corpo e poi si cerca di distinguere lo spirito, lo spirito è differente dal corpo. Cartesio ad esempio introduce questa distinzione. La nostra pratica di zazen non nega che vi siano differenze, il corpo è il corpo e lo spirito è lo spirito. Sono due versanti differenti della realtà, ma con il nostro pensiero abituale li abbiamo separati troppo e quando si pratica concentrando completamente il proprio spirito sulla postura del corpo, allora il mentale viene letteralmente assorbito da questa concentrazione e lo spirito comincia a funzionare in modo diverso. Il tipo di funzionamento ordinario del mentale dualista è assorbito e scompare, mentre appare un modo diverso di essere e di funzionare, nel quale non si creano più separazioni e si sperimenta l’unità. Corpo e spirito abbandonati significa che ogni separazione è abbandonata, così come ogni attaccamento legato a questa separazione. Questo significa che in zazen non esistono più nozioni quali il mio corpo, il mio spirito intesi come due entità separate. Esistono semplicemente un corpo e uno spirito che sono totalmente unità nella pratica dell’istante e che non pensano in termini quali: ora pratico zazen, ora il mio corpo e il mio spirito sono in zazen. Non esiste più dualismo, si diventa unità con la pratica ed è proprio questa unità a indicare che corpo e spirito sono abbandonati, intesi come nozioni o rappresentazioni. Non c’è più il mio corpo, il mio spirito, ma esiste una realtà, vissuta intimamente, di corpo e spirito in completa unità con zazen.

Lunedì 5 luglio 2004, kusen delle 7:00

Questa mattina il cielo si è coperto, ma al di là delle nuvole è totalmente chiaro e luminoso. Quando si è sotto le nuvole lo si dimentica. Per oltrepassare la barriera delle nuvole, ritrovando il cielo chiaro, non è necessario prendere l’aereo.

In zazen le nuvole sono tutti i pensieri ai quali ci attacchiamo, che offuscano la luminosità naturale del nostro spirito. Ritroviamo questo spirito chiaro quando non alimentiamo le nuvole, quando ne osserviamo la volatilità, la vacuità, lasciandole passare rapidamente. Occorre ritornare costantemente allo stato d’animo che precede il loro sorgere, senza opporsi ad esse, senza che zazen diventi una lotta per eliminare i pensieri, occorre ritornare allo spirito da cui tutto proviene.

Il Maestro Wanshi definiva questo spirito 'il campo della vacuità luminosa ', descrivendolo come un luogo selvaggio e lontano, lontano come noi possiamo sentirci lontani dalla natura quando viviamo nel cuore di una grande città, quando siamo nel centro di tutte le fabbricazioni umane. Permane tuttavia in noi un’aspirazione costante a ritrovare questo luogo selvaggio e lontano, ed è ciò che possiamo realizzare quando ci concentriamo sulla pratica di zazen. La Via del Buddha assomiglia a una via antica che ci riconduce in questo luogo nascosto. La maggior parte delle persone ne ha perduto le tracce. Grazie alla trasmissione dell’insegnamento del Buddha è possibile ritrovarle, ritrovando il nostro spirito originario dal quale derivano tutti i pensieri, quello spirito che, benché sembri lontano, è sempre là. Quando possiamo ritrovarlo, farne l’esperienza, allora tutti i nostri pensieri illusori ne sono purificati.

Come questo campo, questo luogo dello spirito dal quale tutto proviene, anche il mondo nel quale viviamo dipende dalla nostra capacità di ritrovare questo spirito. Quando il nostro spirito si chiarifica tutto diventa chiaro intorno a noi. Quando lasciamo cadere le barriere delle nostre fabbricazioni mentali, il nostro spirito diventa libero e vasto. Invece di stagnare sulle vecchie posizioni possiamo entrare in contatto con la realtà di ogni istante, incontrando gli esseri così come sono, non come vorremmo che fossero. E’ questo che consente l’incontro autentico. Concentrandoci sulla respirazione, rendendo fluidi i nostri pensieri, ritroviamo la capacità di metterci al posto dell’altro. Questa capacità è la base della compassione, della benevolenza, dell’autentico amore.

Lunedì 5 luglio 2004, kusen delle 16:30

Durante zazen lo sguardo è posato davanti a sé verso il suolo, senza fissare un punto particolare. Anche se nella concentrazione sulla postura ci si concentra su un punto, ad esempio il contatto tra i pollici, questa concentrazione non restringe lo spirito. Concentrandosi su un punto della postura del corpo si arresta l’agitazione mentale e, in quel momento, lo spirito diventa chiaro e vasto, diventa ciò che è realmente, inglobando ogni cosa, come il vasto cielo. Apprendere a concentrarsi su una cosa ci aiuta in realtà ad essere recettivi ad ogni cosa, mentre se vogliamo afferrare tutto, non siamo veramente in contatto con nulla.

Il Maestro Wanshi diceva: “Lo spirito vasto che abbraccia tutto è simile alla vacuità ultima”

Spesso si confonde la vacuità con il nulla, il niente, la non-esistenza, ma in realtà la vacuità ultima, cioè la realtà così come è, significa che tutto è collegato. In questo senso concentrarsi su un solo essere significa concentrarsi su tutti gli esseri. Spesso si vorrebbero conoscere molti esseri differenti, avere molti partner, fare molti incontri, molte esperienze, confondendo questo con lo spirito vasto che abbraccia tutto. Oppure si pronuncia il voto di aiutare tutti gli esseri che soffrono pensando che occorra assolutamente aiutare tutti e ci si dispera per l’immensità di questo compito. I realtà, poiché tutti gli esseri sono collegati gli uni agli altri, amare veramente un solo essere significa amarli tutti. Aiutare profondamente un solo essere significa aiutare tutti gli esseri. Si può anche dire che comprendere intimamente se stessi significa comprendere tutti gli esseri. Concentrarsi su una pratica significa praticare ogni cosa. Realizzare lo spirito vasto che include ogni cosa significa realizzare che tutte le cose sono comprese in una sola cosa. E’ l’interpenetrazione dell’essenza e dei fenomeni, per la quale la nostra esperienza non è una questione di quantità ma di qualità. La pratica di zazen ci invita a realizzare proprio questo. Non c’è bisogno di voler praticare molte cose, come coloro che passano da una pratica all’altra per paura di perdere qualcosa di utile. Sperimentare profondamente una sola pratica permette di realizzare l’essenza della Via, ciò che vi è di universale, che ritroviamo in tutte le vie.Anche se il cammino è lungo, concentrandoci completamente su ogni passo, ogni passo fatto in avanti include tutto il cammino. Non è questione di quantità, si tratta di compiere totalmente ogni passo.

Realizzare la vita eterna è un problema che non implica il vivere molto a lungo, ma piuttosto sperimentare profondamente il qui ed ora, l’istante presente che è al di là del passato, del futuro, ma che al tempo stesso include il passato infinito e il futuro illimitato.

Se si comprende intimamente questo, se si comprende ciò che collega tutti i differenti aspetti della nostra pratica, allora si può abbandonare ogni avidità, per concentrarsi semplicemente sulla qualità di ogni istante, di ogni incontro, di ogni pratica.

Lunedì 5 luglio 2004, mondo

- Dal momento che ognuno di noi è unico, come possiamo essere tutti Buddha?La cosa avviene su un piano diverso?

- E’ vero che ogni essere è unico, diverso dagli altri. Non esistono due esseri umani simili. Ma questo è solo un aspetto della nostra esistenza. E’ vero che ognuno di noi ha il suo karma, la sua storia, le sue caratteristiche, un patrimonio genetico e soprattutto l’esperienza della propria vita dal momento della nascita e anche da prima, tutto questo fa sì che siamo differenti. Ma è solo un aspetto della nostra esistenza.

Esiste un altro aspetto per il quale condividiamo l’esperienza di essere al mondo con tutti gli esseri, poiché, benché ognuno di noi sia diverso, proprio questo fatto dimostra che siamo tutti il risultato di interdipendenze, di esperienze, di contatti con l’ambiente, con la natura, con l’universo che ci circonda. Siamo a un crocevia, a un punto in cui si incontrano tutte queste interdipendenze. Da ciò risulti tu, risulto io. La nostra posizione nell’ordine cosmico è differente, per questo motivo tu sei tu, diverso da me. La tua posizione nel sistema cosmico è differente, la tua traiettoria, il fatto che tu arrivi lì, tutto ciò che ti porta ad essere lì, di fronte a me, con il tuo viso, i tuoi capelli, il tuo carattere, è il risultato di un numero infinito di interdipendenze, che fanno sì che tu ora sia qui, unico.

Ma questo, l’essenza di questa esperienza dell’essere unici, a causa di questa interdipendenza, rappresenta proprio quello che tu condividi con me e con ciascuno di noi qui, che ci collega l’un l’altro, è ciò che ci rende tutti simili, al di là delle nostre differenze. Siamo unici proprio perché in realtà siamo tutti frutto dell’ordine cosmico ed è proprio questo che condividiamo con tutti gli esseri, non solo gli esseri umani, con tutti gli esseri viventi, dalle formiche agli elefanti, dalla polvere sino alle stelle. E’ l’essenza stessa dell’esistenza, il fatto stesso di esistere. Esistere significa ‘esistere insieme ’ e da questo punto di vista tutti gli esseri sono al tempo stesso simili e collegati fra loro. Fanno tutti la stessa esperienza. Gli esseri non ne sono coscienti, ma in ogni caso tutti gli esseri sono all’interno della stessa realtà dell’interdipendenza, che consente di vivere. Quando si prende coscienza di ciò e lo si approfondisce, emerge da un lato la nostra differenza, l’accettazione che ciascuno ha un ego, una personalità, delle caratteristiche particolari, ma al tempo stesso una grande identità con gli altri. E' proprio questo che permette la condivisione, il fatto che non siamo rinchiusi in bolle separate. Condividiamo la stessa realtà con le nostre differenze.

E’ quello che faceva dire in modo poetico al Maestro Dôgen che la luna immensa nel firmamento si riflette sia nel vasto oceano che in una goccia di rugiada o una goccia di pipì. E’ la stessa luna nel cielo con molti riflessi differenti. Una stessa realtà, ma molti aspetti diversi. Questo si collega con quanto cercavo di esprimere prima nel kusen, è la ragione per la quale sperimentare una cosa sola significa sperimentare ogni cosa, andare al fondo dell’esperienza. E’ quanto fa dire, ad esempio, che un chicco di riso include tutto l’universo, miliardi di galassie. Un solo chicco di riso include miliardi di galassie. Sembra inaudito, incomprensibile, proprio perché non è questione di quantità, bensì di qualità. La natura dell’esistenza del chicco di riso è simile alla natura dell’esistenza di miliardi di galassie, ed è ciò che consente di comunicare con tutti gli esseri, di realizzare ciò. Dobbiamo smettere di irrigidirci sulle nostre posizioni credendoci chissà cosa, vedendo un solo aspetto della nostra storia, del nostro carattere, della nostra personalità. E’ un punto essenziale dell’insegnamento dello Zen, essere simultaneamente coscienti della nostra differenza e della nostra identità. E’ la ragione per la quale cantiamo così spesso il Sandokai, lo si recita perché esprime esattamente questo concetto. Evidentemente, in rapporto alla tua domanda, realizzare questo vuol dire realizzare il risveglio del Buddha, come la luna nel vasto cielo che si riflette nei tuoi occhi, nei miei, in una goccia di rugiada.

Martedì 6 luglio 2004, kusen delle 7:00

Durante zazen tornate costantemente alla concentrazione e alla respirazione, facendo attenzione al modo di respirare. Siate semplicemente attenti al vostro modo di respirare. Quando inspirate siate unità con l’ispirazione. Il corpo e lo spirito partecipano insieme a questa inspirazione. Tutto il resto passa in secondo piano, si abbandona. L’inspirazione diventa la cosa importante. Quando espirate l’espirazione diventa il centro della vostra attenzione. La cosa principale diventa esclusivamente espirare sino al fondo, il resto è abbandonato. Quando si giunge a questo tipo di concentrazione, questa può essere praticata in tutti gli atti della vita quotidiana: durante la cerimonia, quando si pratica gasshô, nel diventare totale unità con questo gasshô. Gasshô esprime questa unità ritrovata, l’unità con se stessi, corpo e spirito riuniti, l’unità con gli altri davanti ai quali ci si inchina. In quel momento gasshô rappresenta totalmente la pratica della Via.

Il Maestro Deshimaru diceva: “Se non potete praticare zazen ogni giorno praticate almeno gasshô. Se non desiderate fare gasshô davanti ad altri, fate gasshô davanti al vostro specchio, davanti a voi stessi.”

Quando si pratica sanpai, corpo e spirito sono completamente prosternati, abbandonati. Si è in totale unità con questo abbandono della presa. A quel punto non c’è più separazione tra sé e gli altri, tra sé e Buddha, tra sé e l’intero universo. In questo senso concentrarsi sulla respirazione, su gasshô, sanpai, significa diventare ‘uno’ con ciò che è al centro della nostra esistenza, della nostra non-separazione con tutto l’universo. Quando si può sperimentare tutto ciò nella respirazione, nei gesti della cerimonia, questa stessa concentrazione può proseguire negli altri gesti della vita quotidiana. Quando si è capaci di concentrarsi totalmente su una cosa, ci si può concentrare su tutte le cose: sul canto dei sûtra, sul gesto di mangiare la guen mai, di camminare, di pulire le verdure, cucire il kesa.

Come diceva il Maestro Wanshi, quando viene sviluppata una capacità, ad esempio la capacità di concentrazione, questa diventa attiva con tutti gli altri fenomeni. Quando non si è in grado di concentrarsi su una cosa non ci si può concentrare su nulla. Nella nostra pratica questa concentrazione va sino al fondo, non a metà o pressappoco. Ci si concentra per compiere completamente ogni cosa, per andare sino al fondo, rendendo completo ciò che facciamo. Prendere la migliore postura possibile in zazen, andare sino al fondo di ogni espirazione, lasciare emergere una profonda inspirazione. In kin hin significa essere concentrati completamente su ogni passo. Durante il samu significa essere concentrati sino alla fine, cosa che comprende anche pulire e sistemare gli strumenti usati. Nella relazione con gli altri significa essere attenti sino in fondo, non a metà, non solo prendendo ciò che ci piace e respingendo ciò che ci interessa di meno, ma accettando totalmente l’altro, non a metà.

Se durante la sesshin riusciamo a praticare tutto ciò, allora tutti i fenomeni della vita diventano occasioni di praticare la Via. Non esiste un luogo speciale, né un tempo privilegiato, non c’é da una parte la pratica della Via nel dojo, nel tempio, in sesshin e dall’altra la vita quotidiana separata. Non ci sono nemmeno ostacoli alla pratica della Via nella vita. Quelli che chiamiamo ostacoli diventano kôan, occasioni di approfondire la pratica, di abbandonare un attaccamento, un’idea preconcetta, l’occasione di sviluppare la flessibilità dello spirito, come l’acqua di montagna in primavera dopo il disgelo, che scorre senza essere più fermata da nulla.

Martedì 6 luglio 2004, kusen delle 16:30

Stavo per dire che la qualità del silenzio in questo dojo è notevole. Proprio in quel momento qualcuno ha cominciato a tossire. Anche se nessuno avesse tossito, se avessi parlato avrei rotto il silenzio.

La campana risuona. Dopo il silenzio è ancora più profondo. Se si è attaccati all’assenza di suoni, all’assenza di rumore e se la nostra pratica è condizionata da questa assenza, nel momento in cui un suono echeggia si ha l’impressione che la qualità della nostra pratica diminuisca. Ciò che perturba la pratica in quel momento non è il rumore, il suono, ma l’attaccamento al silenzio. Si può dire che l’autentico silenzio include i suoni. E’ lo spirito che non è messo in movimento dai suoni, dai rumori, che, non essendo un suono particolare, ad esempio il suono della campana o il suono della voce del godo, non è neppure disturbato quando questi suoni o questa voce si manifestano.

Se si realizza che il silenzio in sé non esiste, che è solo relativo al rumore, è possibile includere entrambi, armonizzandoci con le circostanze, trovando l’autentico silenzio interiore anche in mezzo al rumore, poiché anche il silenzio è senza sostanza fissa, è vacuità.

Si insegna ad essere concentrati qui ed ora. Per alcuni questo 'qui ed ora ' assomiglia al palo al quale si attaccano gli asini. Evidentemente, se si tratta il proprio spirito come un asino che si vuole legare in uno spazio limitato, sia l’asino che lo spirito avranno voglia di scappare. Più si scappa e più si è scontenti, si ha voglia di punirlo perché smetta di muoversi. Allora l’asino si innervosisce sempre più e la situazione diventa caotica. La cosa migliore è dargli spazio. Non c’è bisogno di legarlo da qualche parte. Per il nostro spirito in zazen avviene la stessa cosa. Certo, si raccomanda di concentrarsi sulla postura, sulla respirazione, ma questo non impedisce ai pensieri di sorgere trascinando il nostro spirito in altri luoghi. Talvolta, ad esempio, penso alle montagne o a prima, all’estate. Apparentemente lo spirito vaga altrove, ma in realtà tutto questo avviene sempre ed esattamente qui ed ora.

Se riconoscete che non c’è nulla di speciale da fare per essere qui ed ora, poiché è la nostra realtà fondamentale, allora la vostra pratica può divenire tranquilla ed armoniosa. E’ possibile terminare la lotta, abbandonare ogni tensione all’interno dello spirito e darsi spazio, realizzando lo spirito vasto di zazen che include ogni cosa. Ci si comporta come il Maestro Joshu che lo esprimeva attraverso la sua tazza di the. Un giorno, ricevendo dei discepoli, chiese al primo: “Sei già venuto qui?” “Sì Maestro.” “Allora prendi una tazza di the e vattene.” Chiese poi al secondo discepolo: “Sei già venuto qui?” “No, Maestro” “Allora prendi una tazza di the e vattene.” Il segretario di Joshu sorpreso disse: “Come mai trattate allo stesso modo chi è già venuto qui e chi non è mai venuto?” Joshu gli disse: “E tu?”

“Sì Maestro.” “Prendi una tazza di the e vattene.”

Qui, altrove, non sono mai separati. Ora, dopo, non sono separati. Prima, dopo, non sono separati. Tutto questo esiste in questo istante, il solo istante di coscienza che include tutto.

Martedì 6 luglio 2004, mondo

- In un romanzo di François Cheng viene evocata la legge buddhista di causa ed effetto. Potreste dirmi qualcosa di più sapendo che pensavo si trattasse di una relazione tra causa ed effetto messa in opera dallo spirito razionalista in Occidente?

- E’ un po’ diverso. Del resto, ora, anche in occidente non si crede più alla causalità, si è diventati molto più buddhisti di quanto non si fosse un tempo. Prima si pensava che esistesse una causa che produceva un effetto, ora si pensa all’interdipendenza. La legge di causalità buddhista è la legge dell’interdipendenza. Non è una causa, un effetto, in altre parole è molto più complesso perché tutto è collegato, tutto è interdipendente. Certo, ogni cosa che facciamo produce un effetto, una parola produce un effetto, ma questo effetto si interseca con ogni sorta di cause e di effetti già in corso. Ad esempio, tu hai letto un libro che ti ha condotto qui a porre questa domanda, ma certamente non è solo la lettura del libro che ti ha condotto a porre questa domanda. Vi sono altre cause, ma la lettura di questo libro ha avuto un effetto. Non possiamo isolare una sola causa.

E’ importante non fare di tutto ciò una teoria, comprendendo invece come funziona nella nostra vita, percependo che ogni cosa ha un effetto e che ciò che siamo è l’effetto di cause passate che stimolano il nostro senso di responsabilità. Quando si vedono le cose in questo modo ci si dice: devo fare attenzione, quello che faccio non è gratuito, produce effetti sia per me che per gli altri. Al tempo stesso, se guardiamo più profondamente, dal momento che ognuno di noi è il risultato di tutte queste catene di cause ed effetti multipli, ne deriva che non abbiamo sostanza. Non esiste qualcosa che possa essere definito come 'io'. Certo, abbiamo una percezione di un’identità personale, una costruzione mentale che è il risultato di molteplici cause ed effetti.

Dunque, se si prende coscienza di tutto ciò, è possibile relativizzare il nostro ego, alleggerirlo, vedere che in fondo esiste solo in questa rete di cause ed effetti, di relazioni di interdipendenza, riuscendo ad essere più attenti a ciò che avviene nell’ambito del contatto, nelle molteplici relazioni che abbiamo, sulla sostanza che crediamo costituisca il nostro io. Vedere le cose in questo modo ha almeno due grandi effetti: da un lato ci rende più flessibili, meno attaccati all’idea che ci siamo fatti di noi e al tempo stesso più responsabili. I due aspetti insieme sembrano paradossali, ma l’etica buddhista è così, etica di responsabilità, che al tempo stesso implica l’abbandono del proprio egoismo, dell’identificazione all’idea astratta che ci facciamo di noi. Non essere delimitati da una concezione è la chiave della compassione e dell’apertura agli altri ed è anche la chiave della tolleranza. Dobbiamo smettere di essere chiusi sulle nostre idee e le nostre posizioni, questo ci aiuta a non giudicare troppo gli altri. Le tue cause e le tue concezioni non sono uguali alle mie. Di norma la tua posizione è differente. Non mi aspetto che tu pensi come me, al contrario, apprezzo la differenza. E’ un atteggiamento importante nelle relazioni, si basa sulla visione giusta della realtà, l’apprendimento dell’esistenza nell’ambito della rete dell’interdipendenza, di causa ed effetto.

Mercoledì 7 luglio 2004, kusen delle 7:00

Qui a Maredsous si sentono spesso le campane della chiesa, ci ricordano che il tempo passa rapidamente. Oggi è già la quinta giornata di preparazione. Anche se ad alcuni lo zazen può parere lungo, il tempo scorre molto rapidamente.

Allora, durante zazen, non sprecate il tempo prezioso della pratica, non continuate ad intrattenere lo spirito ordinario che si attacca a tutti gli oggetti di pensiero. Ritornate alla concentrazione sul corpo estendendo questo corpo tra cielo e terra. Concentratevi su ogni respirazione. Per coloro che hanno bisogno di un supporto alla concentrazione la cosa migliore è la respirazione. E’ concentrandosi sulla respirazione che Buddha si è risvegliato. Quando ci concentriamo sulla respirazione non ci lasciamo trascinare e invadere dai pensieri. Anche se con l’inspirazione sorge un pensiero, si espira e si lascia passare. E se non passa lo si osserva attentamente: quale è la natura di questo pensiero? Che cos’é? Piuttosto che cercare di scacciarlo e vederlo ritornare senza sosta, possiamo diventare intimi con esso, così come con le emozioni, i sentimenti, le immagini...

Quando i pensieri, le emozioni sono completamente penetrati dalla nostra attenzione, si dissolvono da soli, poiché si manifesta la loro vera natura, che è senza sostanza come le bolle di sapone. In questo modo tutti gli oggetti che affollano il nostro spirito scompaiono rapidamente, così come gli oggetti che definiamo esterni, gli oggetti delle nostre percezioni.

In questo modo possiamo trovare uno spirito libero, totalmente disponibile, non ingombrato da nulla. E, come ricorda il Maestro Wanshi, questo spirito può adattarsi costantemente alle circostanze mutevoli: “Lo spirito che non dimora su nulla può armonizzarsi completamente con l’impermanenza dei fenomeni e questa armonia costituisce l’autentica libertà.”

Questo permette di contattare ad ogni istante la novità dei fenomeni. Ad esempio, possiamo incontrare una persona e vederla realmente, così come appare, completamente, non attraverso il filtro colorato dei nostri desideri, delle nostre paure, delle nostre attese, dei nostri pregiudizi, divenendo in questo modo veramente accoglienti.

Lo spirito accogliente è capace di aiutare realmente gli altri, senza imporre loro l’idea di ciò che è bene, di ciò che è positivo, ma accogliendoli nella loro realtà. Nella vita professionale lo spirito che non dimora su nulla è lo spirito capace di fare fronte ai cambiamenti rapidi delle circostanze.

Con il passare degli anni lo spirito ha la tendenza a irrigidirsi, si cominciano ad avere idee preconcette su ogni cosa e il cambiamento diventa difficile.

La pratica di zazen permette di rendere lo spirito più flessibile e, come diceva il Maestro Kodo Sawaki, di dissolvere le nostre coagulazioni mentali. Quando il sangue si coagula è la morte, rapidamente. Allo stesso modo, quando è lo spirito a coagularsi, anche questa è una forma di morte, l’incapacità di entrare in contatto con la realtà così come é.

Ritornare alla concentrazione sulla respirazione è dunque il metodo migliore per dissolvere queste coagulazioni mentali, ritrovando ad ogni istante uno spirito fresco e nuovo.

Dobbiamo realizzare che il tempo non passa, che anch’esso è una delle nostre coagulazioni mentali. Passato e memoria, futuro e attesa, immaginazione...solo l’istante presente è la vita così come è.

Mercoledì 7 luglio 2004, kusen delle 16:30

Durante zazen, anche se il sole è coperto dalle nuvole e non c’è molta luce, anche se il silenzio è rotto dal rumore della pioggia, rimanendo concentrati sulla postura e sulla respirazione lo spirito resta chiaro e silenzioso.

L’autentica luminosità dipende dal non offuscare il nostro spirito e questo non ha nulla a che vedere con la luce e l’oscuro. E’ proprio quando cessiamo di opporre nozioni quali luminosità e oscurità, purezza e impurità, amare e non amare, che la nostra autentica luce può manifestarsi.

Quando si smette di opporre il vero e il falso, la propria opinione a quella degli altri è possibile fare veramente ritorno al silenzio.

Il Maestro Wanshi diceva: “Osservate come anche prima che vostra madre fosse incinta di voi e anche dopo la scomparsa del vostro sacco di pelle ogni momento è completamente radioso e luminoso, pieno e rotondo, senza angoli, senza nulla che vi si aggrappi, tutti i piccoli crucci e le piccole preoccupazioni abbandonate.”

Proprio ieri osservavo che la nostra pratica consiste nell’essere completamente qui ed ora. Questo 'qui ed ora ' non è limitato, significa fare immediatamente l’esperienza di ciò che non è nato e che non scomparirà alla nostra morte, l’esistenza che non è possibile circoscrivere con le nostre categorie mentali. Questo si manifesta nel nostro corpo, ma non si limita ad esso, si riflette nel nostro spirito, anche se il nostro spirito non può afferrarlo.

Dobbiamo sperimentare questo, penetrare in quel luogo che, come dice il Maestro Wanshi non può essere offuscato, nel quale il nostro pensiero prende fine e si realizza l’autentica conoscenza di sé.

Quando l’imperatore Liang chiese a Bodhidharma: “Chi sei?” Bodhidharma rispose: “Non ne so nulla.”

Fushiki, senza coscienza, ciò che la nostra coscienza non può afferrare, che nulla può oscurare.

Il Maestro Wanshi aggiungeva: “Conoscere se stessi in questo modo è ciò che si definisce realizzazione originaria.”

Praticare zazen significa ritrovare tutto ciò, tornare a questa origine.

Mercoledì 7 luglio 2004, mondo

- Posso porre la domanda nella mia lingua?

- Sì.

- Vorrei conoscere il significato e l’importanza dell’ordinazione a bodhisattvâ.

- Il significato dell’ordinazione a bodhisattvâ è il significato di zazen. E’ la stessa cosa, l’espressione dell’autentica dimensione di zazen: i quattro voti del bodhisattvâ. Venire in aiuto a tutti coloro che soffrono, aiutarli a liberarsi dalla loro sofferenza è il primo voto del bodhisattvâ, è una via di compassione. E’ il voto che emerge dalla nostra pratica di zazen, che nasce dalla pratica, dal contatto che si stabilisce in sé con la radice della nostra sofferenza e con il nostro sentirci solidali con tutti gli esseri. Quindi, quando si è di fronte a qualcuno, la compassione appare naturalmente a partire dallo spirito che abbandona le barriere del piccolo ego che cerca di proteggersi.

Aiutare gli essersi a liberarsi dalla loro sofferenza non implica che si abbia il potere di eliminare la sofferenza che li opprime, ma che si possa trasmettere loro la fiducia nella pratica che li metterà in contatto con la loro autentica natura di Buddha, che è la pratica di zazen. Il primo voto del bodhisattvâ è quindi il voto di condividere la pratica di zazen con gli altri.

Il secondo consiste nel trovare rimedio alle sofferenze, ai bonno. Certo nel mondo esistono ogni sorta di sofferenze oggettive, esiste la malattia, ad esempio, ma la sofferenza di cui stiamo parlando è la sofferenza derivante dalle nostre illusioni, la sofferenza che noi stessi produciamo. Quando si diventa bodhisattvâ si fa il voto di risolvere la causa della nostra sofferenza morale, la sofferenza interiore, che è provocata a causa delle nostre illusioni, e si fa il voto di risolverla per sé e per gli altri. Ogni volta che liberiamo noi stessi da un bonno, da qualcosa che ci opprime, che ci scoraggia e ci fa soffrire, aiutiamo gli altri a fare lo stesso passo in avanti. Possiamo condividere con gli altri ciò che abbiamo personalmente sperimentato.

Il terzo voto del bodhisattvâ è: “Per numerosi che siano gli insegnamenti del Buddha, faccio voto di realizzarli”. Ma poiché tutti questi insegnamenti nascono dalla pratica di zazen, questo implica studiare gli insegnamenti del Buddha e dei suoi successori, i maestri della trasmissione, alla luce della nostra pratica. In effetti gli insegnamenti del Buddha sono detti homon, le porte del Dharma, che si traduce con insegnamenti, cioè le porte che ci permettono di entrare in contatto con la realtà, dal momento che Dharma non indica solo l’insegnamento, ma anche la realtà così come è. Esistono molte porte nell’insegnamento del Buddha, ma la principale è zazen.

E infine il quarto voto: “Per quanto perfetto sia un Buddha, faccio il voto di diventarlo.” Questo voto sembra così grande, pare poco realistico esprimerlo, ma in realtà diventare Buddha significa risvegliarsi alla propria realtà, a ciò che siamo nel profondo, dunque non si tratta di una cosa così straordinaria. Si è molto idealizzato Buddha, se ne è fatto quasi un dio, e questo, come in tutte le religioni, ha fatto sì che l’ideale diventasse inaccessibile. Ma, dal punto di vista della pratica di zazen, che cos’é Buddha? Non è un essere eccezionale, con trentadue segni distintivi... A volte certi maestri hanno detto: “Che cos’é Buddha?” “Un nettaculo!” Forse è un po’ esagerato, ma serve a togliere l’illusione che il Buddha sia un essere eccezionale. Idealizzare eccessivamente Buddha è un modo per rendere inaccessibile la sua realizzazione, cosa del tutto contraria al suo insegnamento, poiché dal momento in cui ha realizzato il risveglio in zazen, ha cominciato a dire e ad esprimere con chiarezza “tutti potete realizzare quello”, senza pretendere di aver avuto una rivelazione straordinaria.

Gli esseri umani, però, sono pieni di ogni sorta di complessi d’inferiorità, mentre l’insegnamento del Buddha consiste nel dare fiducia ad ognuno, nell’offrire la possibilità di risvegliarsi e di liberarsi dalle cause della sofferenza, dal momento che noi stessi le creiamo, che noi stessi offuschiamo la nostra realtà. Tutto ciò che abbiamo creato per oscurarci e creare in noi sofferenza può essere demolito, smontato da zazen. Ecco i quattro voti del bodhisattvâ.

Poi, nell’ordinazione di bodhisattvâ, si fa il voto di seguire i tre tesori, è un atto di fede, di fiducia nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha. Del Buddha ho parlato. Il Sangha è importante quando si riceve l’ordinazione, perché ricevere l’ordinazione significa essere accolti nella comunità di coloro che seguono lo stesso cammino, la stessa Via, la stessa pratica. Infine si pronuncia il voto di proteggere i dieci precetti: non uccidere, non rubare, non mentire, non avere una cattiva sessualità, non intossicare il corpo e lo spirito, non criticare gli altri, non essere orgogliosi, pretenziosi, non essere collerici, non essere avari e infine non calunniare i tre tesori. Spiegare ora in dettaglio i dieci precetti sarebbe troppo lungo, del resto risultano evidenti quando li si elenca. Li si sente in molti insegnamenti spirituali, nella pratica dello Zen, ma questi precetti, in realtà, sono contenuti nello zazen stesso.

Esiste un aspetto nei precetti per il quale viene detto: ‘non bisogna fare questo, non bisogna fare quello ’ , ad esempio non uccidere, non rubare, si tratta quindi di interdizioni, ‘non bisogna ’, non bisogna fare ciò che crea sofferenza, karma negativo. I precetti ci guidano per evitarci di fare errori, ma questo non rappresenta il loro significato profondo.

Il loro senso profondo consiste nell’essere tutti contenuti in zazen, quindi se si ha una pratica profonda, si realizza una maniera d’essere, una condizione per la quale non è più possibile uccidere, o rubare, ecc.

In ogni caso, anche se zazen non ci rende perfetti, ci aiuta a realizzare tutto questo, cioè a vivere veramente in armonia con ciò che siamo profondamente, per cui non è più possibile uccidere, rubare, creare sofferenza, perché sarebbe incoerente e non in armonia con ciò che siamo.

Alla fine, come diceva il Maestro Deshimaru al termine della cerimonia di ordinazione, il precetto principale è praticare zazen. Chiedere l’ordinazione a bodhisattvâ significa esprimere la propria fede nella dimensione profonda della pratica di zazen, affermare che si desidera andare in quella direzione. Questo non significa che la si è realizzata completamente, ma che ci si rimette alla pratica per avanzare con gli altri su questo cammino, d’accordo?

Venerdì 9 luglio 2004, kusen delle 7:00

Durante zazen lo sguardo è rivolto verso l’interno, il bacino inclinato in avanti. Prendiamo appoggio al suolo e, a partire dalla colonna vertebrale, estendiamo la nuca e spingiamo il cielo con la sommità del capo. Il mento è rientrato, le spalle rilassate. Il ventre è disteso e si lascia che il peso del corpo poggi sullo zafu. Si inspira e si espira andando sino al fondo di ogni espirazione.

Si sentono i suoni, gli odori, li si distingue chiaramente, ma non ci si attacca ad essi. Si osservano i pensieri che sorgono per un istante e li si lascia passare. La stessa cosa avviene per le percezioni, le sensazioni, si entra in contatto con esse nel momento in cui sorgono, le si riconosce e le si lascia passare.

In questo modo si impara a diventare intimi con se stessi e in questa intimità non si lascia che lo spirito ristagni. Grazie alla concentrazione sulla postura e sulla respirazione lo spirito rimane fresco, perché alla fine di ogni espirazione si diventa 'unità' con i pensieri che ci occupano. Che si tratti di pensieri relativi alla vita quotidiana o pensieri riguardanti la Via, o Buddha, i nostri pensieri sono visti alla luce di zazen, nella loro realtà, cioè nella loro vacuità, come fossero piccole onde sulla superficie dell’acqua, fluttuazioni sulla superficie dello spirito. “Là dove nulla è offuscato vi è ciò che si definisce la realizzazione del sé.” diceva il Maestro Wanshi. L’autentica realizzazione è conoscere se stessi, ma questa conoscenza non consiste nell’identificarsi, non è qualcosa che si possa afferrare, non è qualcosa.

Si sentono dei suoni. Quando suona la campana le vibrazioni influenzano il nostro orecchio profondo e riconosciamo un suono. Fino a quel punto c’è sempre dualità: il suono, l’organo di senso che lo percepisce ed io che lo riconosco. Quando si pratica zazen questo tipo di funzionamento dello spirito viene abbandonato. Non c’è il suono e chi ascolta il suono, così come non c’è la postura del corpo ed io che mi concentro sulla postura, ma semplicemente uno spirito senza separazioni. Ognuno realizza questo da sé. Non accontentatevi di ascoltare le mie parole, ma concentratevi semplicemente sulla vostra pratica realizzando questo stato. Il Maestro Wanshi diceva: “E’ essenziale non prendere a prestito dagli altri, coltivate la vostra casa.” Sperimentate tutto ciò da soli con chiarezza, semplicemente.

Venerdì 9 luglio 2004, kusen delle 11:00

Durante zazen è talvolta difficile non avere alcun supporto alla concentrazione. Una volta trovata una postura stabile ed equilibrata, con un giusto tono dei muscoli, potete semplicemente porre la vostra attenzione sul contatto dei pollici orizzontali, che si toccano leggermente senza formare né montagne né valli. Questo contatto aiuta anche a trovare equilibrio nello stato d’animo, aiuta a non cadere nella sonnolenza o ad essere preda dell’agitazione. Spesso i praticanti passano il tempo di zazen a lottare sia contro la sonnolenza che contro l’agitazione. Talvolta passano dall’una all’altra, sempre scontenti e frustrati perché non riescono ad essere senza pensieri. In questo caso zazen diventa una sorta di lotta, un combattimento. Per rimediare a ciò occorre accogliere completamente lo stato di sanran, lo stato di kontin, accettando la sonnolenza quando si presenta e l’agitazione mentale quando si produce, realizzando in questo modo uno spirito più vasto, una coscienza che ingloba tutto, senza attaccarsi a nulla, senza respingere nulla, essendo semplicemente coscienti di ciò che è così come è. Non dobbiamo sviluppare né attaccamento né odio rispetto ai fenomeni che sorgono durante zazen. Se si pratica così, anche gli stati di kontin o di sanran non disturbano, perché sono assorbiti dalla pratica di zazen. Lo spirito può tornare più rapidamente e naturalmente all’equilibrio, abbandonando ogni lotta. Tutto ciò diventa più facile se si comprende che non esiste un nemico, un avversario, un oggetto da combattere. Ciò che sorge in zazen, come nella vita quotidiana, è senza sostanza.

Questo concetto è costantemente raccomandato anche dal Maestro Wanshi quando dice: “Apprezzate pienamente la vacuità di tutti di Dharma. Allora tutti gli spiriti sono liberi e tutte le polveri evaporano nella luce spirituale che brilla ovunque.” Si ha spesso l’impressione che la pratica di zazen consista nel togliere la polvere che oscura il nostro spirito, come il Maestro Jinshu per il quale zazen consisteva nel ripulire costantemente lo specchio della coscienza. E’ vero in parte. La pratica che consiste nel concentrarsi senza lasciare che lo spirito ristagni su alcun pensiero. Ma se si realizza intimamente che tutti i pensieri sono vuoti e che lo specchio dello spirito stesso è senza sostanza, inafferrabile, allora lasciar passare i pensieri diventa più semplice e facile. La tendenza ad attaccarci ad essi o ad opporci scompare e anche se questa tendenza si riproduce, la guardiamo come impermanente e senza sostanza. Questa visione chiara della realtà permette di ristabilire la chiarezza originaria che brilla ovunque, anche nel cuore della notte, anche sotto le nuvole. La notte diventa chiara, le nuvole stesse luminose. E nulla può oscurarci. E’ il senso di questa pratica, ritrovare uno spirito aperto e flessibile, in armonia con la realtà così come é. Il Maestro Wanshi diceva: “Trasformandovi così, secondo le circostanze, incontrerete tutti gli esseri come vostri antenati.”

Quando non ci si attacca più al proprio ego, non c’è più separazione tra noi e tutti gli esseri. Tutti gli esseri diventano me ed io divento tutti gli esseri. Tutti sono i miei antenati, abbiamo cioè un legame intimo che ci unisce. Realizzare la vacuità di ciò che costituisce il nostro ego non significa cadere nel nulla, ma piuttosto comprendere che la nostra vita è solo relazione, vivendola pienamente con uno spirito libero, privo di pregiudizi, senza proiezioni. Questo spirito illumina tutte le condizioni, è generoso, al di là di ogni dualità, magnanimo, diceva il Maestro Wanshi.

Venerdì 9 luglio 2004, kusen delle 16:30

E’ importante proteggere l’atmosfera del dojo, cercando di non muoversi, di non fare rumore, allineandosi con gli altri, offrendo tutta la propria energia alla pratica della postura. Il fatto che utilizziamo il nostro corpo e il nostro spirito per la Via, che condividiamo questa stessa Via con gli altri creando le condizioni più favorevoli perché si realizzi, è un dono, è il senso profondo del Sangha. Quando pratichiamo così dimentichiamo noi stessi, doniamo e riceviamo, senza separazioni tra noi e gli altri. Questa comunità non è limitata alle persone che si incontrano e praticano insieme in una sesshin. Quando si realizza questo spirito senza separazione si possono incontrare tutti gli esseri, come se fossero i nostri genitori, dice il Maestro Wanshi. Tutti gli esseri vuol dire non solo gli esseri umani, vecchi o giovani, quali che siano il loro aspetto, la loro origine, ma anche tutti gli esseri viventi, gli animali, gli insetti, i cani, gli animali più grossi, le vacche, gli elefanti. E’ una pratica molto conosciuta che stimola la compassione. Nel ciclo delle rinascite tutti gli esseri, in un momento o in un altro, sono stati parenti prossimi, nell’ambito di una relazione quale madre-figlio, padre-figlio. E, senza immaginare questo, se lasciamo cadere le barriere del nostro piccolo ego, è possibile sentirci molto vicini e molto intimi con tutti gli esseri viventi. Questa è la base della compassione e della benevolenza nei confronti di tutti gli esseri. Per realizzare ciò abbiamo la pratica di zazen e tutti gli insegnamenti del Buddha. Coloro che seguono la Via del Buddha vi si applicano inconsciamente, sforzandosi di praticare al meglio delle loro possibilità, tanto lo zazen nel dojo che la pratica delle paramita nella vita quotidiana. Tutto questo è perfettamente giusto, è la direzione giusta da seguire e in questa direzione c’é un passo in più da compiere, che consiste nel lasciare cadere ogni sforzo cosciente, nell’abbandonare anche le migliori motivazioni. Dobbiamo semplicemente ‘essere’ senza secondi fini, senza dualità.

Il Maestro Wanshi esprime questo concetto dicendo: Il vento tra i pini e la luna nell’acqua, chiari e senza desideri, sono contenti nel loro elemento.” Senza intenzioni, il vento e i pini, la luna e l’acqua non creano ostacolo l’uno all’altra. Il vento non ha l’intenzioni di muovere i rami del pino, il pino non oppone resistenza al soffio del vento. Il vento soffia, i rami oscillano naturalmente, mushin, senza pensare. E’ il modo più profondo di praticare zazen. Dopo aver fatto molti sforzi per avere la postura migliore cerchiamo di regolare lo stato d’animo per evitare di essere in sanran o in kontin, concentrandoci sulla respirazione, ma poi abbandoniamo anche questo. Si continua zazen, al di là di ogni tecnica, di ogni secondo fine. Il corpo è nella postura, ma l’attaccamento al corpo è abbandonato. La respirazione avviene inconsciamente e naturalmente, i fenomeni sorgono e scompaiono spontaneamente, senza che la volontà intervenga, senza rimpianti, né attese. Anche se sorgono dei rimpianti, dei desideri o delle attese, non li rimpiangiamo. Tutto questo giunge semplicemente a riflettersi in zazen come la luna sull’acqua, senza che la luna sia bagnata o che l’acqua sia mossa.

Venerdì 9 luglio 2004, mondo

- Quest’anno, nell’ambito dell’università popolare di Caen, ho partecipato ad un ciclo di conferenze sulle tesi femministe. Si parlava delle prime donne filosofo e delle acquisizioni delle donne nel ventesimo secolo. Vorrei conoscere la posizione dello zen in generale e la tua in particolare nei confronti dell’aborto?

- Non vedo molto il rapporto con il femminismo, la tua domanda sembra riguardare solo la donna, colleghi questo con il femminismo?

- Sì, perché cerco di essere breve.

- Sì, ma in un aborto si è in due. Certo, alla fine decide la donna, è lei che ha il potere di tenere o no il bambino, ma spesso prenderà la decisione in base alla relazione che ha con il padre. La mia opinione è che l’aborto sia qualcosa da evitare al massimo, perché è assimilabile all’azione di uccidere e dunque di infrangere il primo precetto del Buddhismo. Nondimeno la posizione dei buddhisti, in genere, non è così categorica perché occorre valutare anche le circostanze. In primo luogo occorre evitare di creare circostanze per le quali questa risulti l’unica soluzione possibile, o quella che viene considerata la migliore, ad esempio nel caso in cui si ritenga che il nascituro verrebbe alla luce in circostanze talmente negative da preferire che non nasca. Questo può avvenire per ragioni legate all’insorgenza di malattie genetiche, per le quali si corre il rischio di nascere con un handicap, ma potrebbe anche avvenire nel caso in cui né il padre né la madre desiderino il figlio, che sarebbe accolto molto male perché mancherebbero le necessarie disposizioni sia di cuore che di spirito. Si tratterebbe anche qui di una circostanza negativa. Il problema è che non si può prevedere in anticipo, non si può sapere. Nel momento in cui si viene a conoscenza del fatto che si avrà un bambino, che lo si è creato, possiamo detestare l’idea, che va contro i nostri progetti, che disturba il nostro ego, ma spesso i genitori che si sono trovati in queste circostanze e che hanno accettato la nascita hanno poi finito con l’amare il loro figlio perché esiste una natura che è più forte dell’ego e che agisce quando il bambino nasce. Ritengo si debba pensare a tutto ciò e riflettere bene prima di prendere la decisione di abortire, cercando di fare il possibile per evitarlo mantenendo lo spirito di compassione e cercando di capire cosa è meglio per l’essere che deve nascere, quale è la soluzione migliore per lui.

In una nascita, di solito, si è in tre, il padre, la madre e l’essere che deve nascere. Può essere che abbia fatto una cattiva scelta cercando di nascere in quella coppia. Ma, se si riflette bene, non si può decidere questo, è molto difficile scegliere ciò che è bene perché non possiamo dominare tutti i parametri della vita e della morte. Quella che pare una sfortunata circostanza diventerà forse una buona circostanza. L’ideale è quindi di poter accettare la nascita, ma il Buddhismo non ne fa una regola assoluta. Nei confronti dei precetti c’é sempre una grande flessibilità. Occorre tenere conto del fatto che possano esistere circostanze per le quali si decide in altro modo, senza per questo colpevolizzare o condannare le persone che hanno fatto ricorso all’aborto. La soluzione migliore è, evidentemente, la prevenzione. Se non si desiderano figli non si devono creare le condizioni per averne, per quanto è possibile. D’altro canto, se sulla terra ci fossero solo figli desiderati, non ci sarebbe molta folla, questo è certo! La maggior parte dei bambini nascono per le casualità della fortuna, è un po’ una lotteria e forse è ancora meglio, perché se ci sono troppe intenzioni avviene un po’ la stessa cosa che per la pratica di zazen, se si investe troppo con la volontà non è detto che sarà meglio, infatti i bambini più desiderati non sono necessariamente quelli accolti meglio, portano sulle spalle il peso di un’attesa eccessiva, non hanno la libertà di essere diversi da quello che ci si aspetta da loro. In fondo è come per zazen, inconsciamente, naturalmente ed automaticamente, è il livello superiore…

- Ti ringrazio per la risposta. In effetti avevo voluto dire che lo zen era radicalmente contrario all’aborto, che non è la soluzione migliore, ma che a volte può essere il male minore. Pensavo che il non accettare questa idea almeno in talune circostanze fosse del tutto opposto alla compassione ed ero molto inquieta.

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- La mia domanda riguarda l’ebbrezza. Mi premunisco contro di essa cercando di non bere troppo. L’ebbrezza è cercare di respingere i limiti non andando troppo nel profondo, né troppo in alto, né troppo veloce. Mi è più difficile invece da quando pratico zazen al di là della gioia che talvolta procura la pratica, perché ho la sensazione di oscillare verso l’ebbrezza. Si tratta di una ebbrezza simile a quella che le altre persone ricercano, questa ebbrezza che respinge i limiti, che ci pone in unità con tutto l’universo, come si ripete spesso e che dona una impressione di libertà? Quelli che vogliono andare troppo veloci spesso lo fanno purché vogliono essere liberi. E’ un’ebbrezza della stessa natura, dobbiamo averne paura? Come premunirsi contro di essa, dal momento che la si controlla meno, come dicevo...

- Non capisco bene, quale ebbrezza? Di quale ebbrezza parli? E’ la sensazione che provi in zazen?

- No, non tanto in zazen, ma dopo. Ho notato, non solo per quanto riguarda me, ma anche nel caso di altre persone, che alla fine della sesshin si ha in un certo senso l’impressione, come negli altri casi di ebbrezza, di perdere un poco l’equilibrio…

- Sì, può capitare, immagino il tipo di ebbrezza al quale ti riferisci, lo vedo, lo osservo, è un sentimento di grande libertà. Credo lo si debba accogliere facendo attenzione, perchè può essere pericoloso. Alcuni, dopo una sesshin, hanno incidenti con la macchina.

- Ho corso quel rischio!

- A volte si fanno incontri incontrollati e privi di riflessione, che sembrano giusti, si è contenti, ma poi ci si chiede che cosa si è fatto. Occorre controllare la libertà di zazen nel momento in cui si entra nei fenomeni della vita, deve essere canalizzata. Questo non significa che si debba perdere la spontaneità, ma piuttosto ritrovare dei limiti. E’ la ragione per la quale esistono le paramita, i precetti, la pratica della concentrazione. Si osservano gli effetti dei propri atti, ma questa osservazione non si pone in contrasto con la dimensione assoluta della non-dualità e della non-separazione. Sono i due poli della nostra vita, dobbiamo vivere in queste due dimensioni, quella che ci mette in contatto con l’assoluto, con una libertà senza limiti, e la dimensione relativa, nella quale si è coscienti degli effetti e dell’interdipendenza. Dobbiamo progredire con entrambi gli aspetti, senza perdere la libertà interiore realizzata in zazen, ma sapendola canalizzare. E’ la ragione per la quale, nella trasmissione del Maestro Deshimaru è presente la trasmissione di zazen, ma anche la trasmissione dell’ordinazione con i precetti, proprio perché questa liberazione profonda si attualizzi nelle migliori condizioni, in particolare in tutte le situazioni di interdipendenza nelle quali è complicato.

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- Con il suono delle campane non si sente molto, domani cambiamo orario!

- Cercherò di parlare più forte...

- Sì, ne hai l’abitudine...

[ questa domanda riguarda gli handicappati, ma è stata purtroppo cancellata trascrivendo il testo ]

Sabato 10 luglio 2004, kusen delle 7:00

In zazen ritorniamo alla concentrazione sulla nostra postura, senza lasciarci trascinare dai pensieri. Non ci muoviamo, quali che siano i pensieri che sorgono da un istante all’altro. Non solo il corpo resta immobile, ma lo spirito non si lascia turbare o trascinare dalle fabbricazioni mentali che continuano a sorgere.

La postura è stabile, la respirazione calma e profonda, i pensieri e le emozioni possono andare e venire senza turbarci. In questo modo possiamo ritrovare una vera libertà di spirito senza dover allontanare tutti i fenomeni, ma trovando la stabilità che non viene turbata da nulla.

Per ottenere questa stabilità occorre concentrarsi particolarmente sull’espirazione, ed è essenziale espirare spingendo bene l’energia sotto l’ombelico.

Il Maestro Wanshi diceva: “Di giorno il sole, di notte la luna, ciascuno appare senza abbagliare l’altro. E’ così che i monaci in kesa praticano con fermezza, naturalmente, con stabilità.” E aggiunge: “Senza angoli né cuciture”, cioè senza nulla che crei opposizioni o separazioni.

I fenomeni possono sorgere nella nostra vita, nel nostro spirito, senza turbarci. Per raggiungere questa stabilità, dice Wanshi, dovete abbandonare completamente le vostre fabbricazioni mentali, le vostre ruminazioni, le vostre idee preconcette.

Dovete far fronte a tutto ciò che sorge con lo spirito nuovo di zazen, lo spirito che non ristagna su nulla, lo spirito chiaro, senza pregiudizi, che si armonizza con il susseguirsi dei giorni e delle notti, senza opporli, senza opporre l’ombra e la luce. Quando giunge l’ombra la accogliamo, quando sorge la luce la accogliamo, senza opporle, senza rimanere attaccati né all’una né all’altra.

In zazen non ci attacchiamo né ai pensieri né al non-pensiero. Questo significa che, anche se si manifestano i poli delle nostre dualità, non li si oppone ma, al contrario, li si abbraccia, li si armonizza, come l’alto e il basso nella postura di zazen, spingendo il cielo con la testa e la terra con le ginocchia.

Sabato 10 luglio 2004, kusen delle 11:00

Quando si entra nel dojo si oltrepassa la soglia col piede sinistro, si fa gasshô, ci si dirige verso il posto scelto per fare zazen rimanendo concentrati sui gesti e lasciando al di fuori tutte le preoccupazioni della vita quotidiana.

Si paragona spesso il dojo a una foresta di montagna e si dice che entrarvi sia come entrare in questa foresta, lasciando il mondo delle fabbricazioni umane, dei conflitti e degli attaccamenti legati al nostro ego per penetrare in una dimensione di vita diversa, al di là di queste preoccupazioni.

Capita spesso che gli attaccamenti della vita quotidiana ci seguano nel dojo, ben oltre la soglia. I nostri bonno ci accompagnano fino allo zafu: alcuni vogliono incontrare un compagno o una compagna, altri aspettano il satori, altri ancora hanno paura di perdere qualcosa… In ogni caso, qualsiasi cosa giunga in zazen, pratichiamo insieme ad essa, pratichiamo con ciò che è presente.

Qualunque cosa agiti il nostro spirito, diceva Wanshi, dobbiamo sederci attraverso questa cosa, come un battello che procede attraverso le onde e attraversa ciò che si presenta. Dobbiamo lasciare cadere tutto.

Non si tratta di combattere i propri pensieri ossessivi, l’agitazione, ma solo di lasciar cadere, praticando attraverso ciò che si presenta. In questo modo, diceva Wanshi, potrete raggiungere la realizzazione e rischiarare, illuminando totalmente, dimenticando completamente l’opposizione tra luce ed ombra, smettendo di creare opposizioni nella nostra vita. Illuminare totalmente significa vedere che l’uno non esiste senza l’altro, 'sé' non esiste senza gli altri. Ciò che si definisce risveglio non esiste in assenza di illusioni.

La sesshin non esiste senza la vita quotidiana: quando siamo immersi nelle attività della vita sentiamo il bisogno di fare una sesshin, ma essa non deve porsi in opposizione alla vita quotidiana, deve permetterci di lasciar cadere l’opposizione tra i due aspetti.

Inizialmente si passa dalla sesshin alla vita quotidiana, dalla vita quotidiana alla sesshin, ma poi tutta la nostra vita diventa sesshin. Tutto ciò che pratichiamo durante la sesshin può essere praticato nella vita quotidiana. Tutto. Ci si può sedere regolarmente sia in un dojo, sia a casa propria, fare zazen, fare posto allo zazen nella vita e, partendo da esso concentrarsi su ogni azione della vita, con uno spirito tranquillo e completamente presente a ciò che si fa.

Wanshi diceva anche: “Se vi spogliate della vostra pelle, tutte le impurità dei sensi saranno completamente purificate, il vostro occhio potrà vedere chiaramente la luce.”

Lasciar cadere la nostra pelle significa abbandonare ciò che in noi crea separazioni, tra dentro e fuori, tra sé e gli altri, tra sé e tutti gli oggetti dei sensi. Finché si rimane attaccati a questa separazione, a questa dualità, o si è disturbati dagli oggetti dei sensi o li si vuole possedere e in questa alternanza non si trova pace.

Questo fatto è ancora più evidente nella relazione che intercorre tra sé e gli altri. Lo spirito che ci separa dagli altri è troppo forte: o ci si sente troppo soli, e si è dispiaciuti per questa solitudine, o ci si sente costantemente disturbati dalla presenza degli altri. Se invece lasciamo cadere questa barriera, allora la solitudine non esiste più e, come diceva Yoka nello Shodoka: “Possiamo giocare insieme sulla Via senza attendere qualcosa di speciale, gli altri diventano i nostri compagni sulla Via.”

Wanshi prosegue le sue raccomandazioni dicendo: “ Accettate la vostra funzione, siatene pienamente soddisfatti.”

Smettete di voler essere diversi, o altrove, di voler avere una funzione diversa. Potete realizzare la Via là dove siete, così come siete. Questo è il modo migliore di riconciliarsi con se stessi, di trovare una vita armoniosa, di essere pienamente soddisfatti.

Sabato 10 luglio 2004, mondo

- Nel kusen di questa mattina hai detto che era meglio accontentarsi della propria situazione, di ciò che si ha, di ciò che si è. Innanzi tutto ritengo che non sia facile, e mi chiedo come conciliare questo con la necessità di non accettare determinate situazioni, ad esempio quelle che non mi sembrano giuste.

- Non si tratta di accettare tutte le situazioni. Non è quello che ho voluto dire, dicevo piuttosto di essere sufficientemente in contatto con se stessi da comprendere che non c’é null’altro da realizzare se non ciò che siamo già da sempre, ma questo non dipende dalle circostanze. Questo non significa che tutte le circostanze siano buone e che le si debba lasciar andare avanti se sono ingiuste, se causano sofferenza, ecc. Volevo piuttosto dire che ognuno di noi, così come è, è già perfetto, è completamente se stesso, anche se...

- … anche se non lo si attualizza…

- …ecco! C’è un grande lavoro da fare, realizzando ciò che siamo veramente nel profondo, apprezzando ciò che siamo, smettendo di voler essere diversi. Gli esseri umani hanno la tendenza a voler essere sempre diversi. Un po’ più di questo, più di quello, un po’ meno di questo, o di quello, perché si ha l’impressione che ciò che si ha non vada bene, che in fondo non possiamo amarci per quello che siamo, abbiamo a malapena il diritto di esistere così come siamo. Questo avviene perché non siamo sufficientemente in contatto con ciò che siamo realmente nel profondo e questa è la base della nostra pratica. Darci fiducia in questo è il ruolo del Buddha e di tutti i maestri della trasmissione. Questo non significa che tutte le circostanze siano perfette in se stesse, sono piuttosto l’occasione di risvegliarci, perché ogni incontro, anche se conflittuale, anche se difficile, è l’occasione di approfondire la comprensione di sé. A partire da questa comprensione profonda possiamo comprendere ancora meglio che abbiamo cattive abitudini, che non siamo così spesso in armonia con noi stessi, con ciò che siamo profondamente, che dobbiamo fare un lavoro su di noi e soprattutto che incontriamo situazioni spesso piene di ingiustizia e di karma negativo causate da talune nostre azioni, o da azioni degli altri. Il nostro ruolo è di operare nel mondo cercando di far progredire le cose, di correggere tutto ciò che possiamo. Non si tratta certo di una accettazione passiva: dire che tutto è perfetto, che tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili sarebbe assurdo. In ogni caso non ho inteso dire questo. Per ciò che riguarda la nostra pratica della Via e quindi la nostra ricerca interiore, dobbiamo capire che quanto ricerchiamo è già lì da sempre, che siamo Buddha da sempre, ma non lo crediamo, non lo comprendiamo e non lo attualizziamo. Certo possiamo chiederci cosa significa essere già Buddha se non lo si attualizza. E’ un bel kôan.

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- Anche la mia domanda riguarda il kusen di questa mattina, hai detto che una volta entrati in un dojo, oltrepassata la soglia dobbiamo abbandonare le preoccupazioni, le paure, le illusioni.

- Di solito sì, in ogni caso è ciò che viene insegnato.

- Allora mi chiedevo a cosa serve oltrepassare la soglia se abbiamo la possibilità di abbandonare le nostre preoccupazioni prima.

- No, no, è oltrepassando la soglia. E’ proprio la soglia a costituire l’occasione di abbandonare. Nel momento in cui la oltrepassiamo la direzione del nostro spirito dovrebbe cambiare, è proprio la funzione del trave quella di operare un passaggio da un certo modo d’essere a un altro. Ad esempio all’esterno del dojo possiamo essere distratti, attratti costantemente dalle persone, gli oggetti dei nostri desideri e, di colpo, oltrepassata quella soglia, il nostro sguardo si volge verso l’interno, osserviamo noi stessi, siamo concentrati su ciò che facciamo, non guardiamo più gli altri, non c’é più qualcosa di interessante da incontrare o da ottenere. Non è più questo, è una dimensione diversa.

- Questo sì, d’accordo. Sì, quello che mi verrebbe da dire è che entrare con le paure, le illusioni, i dubbi, in modo da poterli vedere…

- E’ proprio quello che ho detto. Si suppone, entrando nel dojo, di lasciare al di fuori le proprie preoccupazioni o almeno, questo è lo sforzo cosciente. Quando si entra nel dojo di solito si immagina di lasciare al di fuori tutte le preoccupazioni, o almeno questo è lo sforzo cosciente che si fa, è ciò che raccomanda Dôgen nel Fukanzazengi dicendo: “Quando entrate nel dojo la prima cosa da fare è dimenticare le preoccupazioni della vita quotidiana.” Dimenticare le occupazioni del mondo, del lavoro, della famiglia. Non entrate nel dojo per occuparvi di questo, lasciatelo al di fuori. Ognuno di noi ha però potuto sperimentare che non è così semplice, anche se facendo zazen non si ha il desiderio di cominciare a pensare e a risolvere i propri problemi, nondimeno esistono ondate di pensieri che ritornano costantemente e che non hanno nulla a che vedere con la seduta di zazen. Si tratta di cose del passato, di preoccupazioni, di desideri ed è proprio questo il punto che volevo sottolineare, è anche il punto che sottolineava Wanshi nel suo insegnamento.

In un certo senso è quasi positivo che questi fenomeni entrino in zazen, perché possiamo considerarli dal punto di vista di zazen, attraversandoli senza rimanere agganciati ai nostri desideri o alle nostre preoccupazioni, non tanto perché sono rimasti fuori dal dojo, perché se fossero rimasti fuori usciremmo recuperandoli così come erano e non ci sarebbero molti cambiamenti...

- E’ quello che mi sembrava...

- Il fatto che tutto questo entri involontariamente nel dojo...non bisogna arrivare dicendo: bene, allora ne approfitto, ho il tempo di zazen per cercare di risolvere questo problema. Normalmente si entra nel dojo con la ferma decisione di non pensare alle cose della vita quotidiana, ma poiché questi pensieri giungono malgrado tutto, a quel punto facciamo zazen anche con essi, ma guardandoli in modo diverso.

- In effetti, dall’inizio della settimana ho una bolla qui a livello del plesso. Ho oltrepassato la trave e la bolla mi ha seguito fino allo zafu e c’é sempre!

- Hai fatto fare zazen alla tua bolla?

- Sì, ne ho avuto cura come mi hai detto…

- Hai guardato cosa c’era dentro?

- Sì, ne ho cura, le parlo, è un bambino che è là e vorrei che uscisse, allora me ne prendo cura.

- Bisogna che faccia zazen.

- E’ quello che faccio.

- Dobbiamo fare zazen anche con i nostri demoni, devono fare zazen anche loro.

- Nel libro verde sui patriarchi dici che il maestro Deshimaru ti ha detto: “Quando si perde un amore si guadagna molto amore.” Dici spesso che occorre sentirsi intimi con se stessi, intimi con gli altri, ma la spiritualità e l’amore sono sentimenti così intimi che non è possibile condividerli con tutti. C’è un limite ed occorre proteggersi. Se non si possono condividere questi sentimenti con tutti vorrei chiederti dove si situa il limite tra l’amore universale e l’amore personale, perché una persona può anche essere l’universo.

- Improvvisamente non capisco più la tua domanda! Me la puoi riassumere?

- Sì, il rapporto tra l’amore personale e l’amore universale, essere intimi con se stessi e con gli altri...si può condividere tutto? C’è un limite?

- Certo non si condivide tutto con tutti. Se cominci a voler fare all’amore con tutti gli uomini... è evidente che alcune cose restano intime ed esclusive, le si riserva ad una sola persona, proprio nel quadro di un amore personale, tra un uomo e una donna, tra due uomini se sono omosessuali.

- Allora perché il Maestro Deshimaru dice che quando si perde un amore si guadagna molto amore? E’ come se ci fosse concorrenza tra i due.

- Credo che questo abbia a che vedere con l’ideale del monaco. Ad esempio, quando si ama personalmente ed appassionatamente una persona, come un uomo che ama una donna, se questo amore è molto forte si rischia di esserne assorbiti troppo e non si è molto disponibili per gli altri. La stessa cosa avviene quando una donna ama un uomo e pensa di doversi consacrare totalmente a lui, non potendo però essere molto disponibile per gli altri. E’ vero che un giorno il Maestro Deshimaru mi aveva scritto una cartolina di risposta al mio annuncio che la mia compagna dell’epoca mi aveva lasciato nella quale diceva “Not love becomes true love”. Era una frase scritta per consolarmi perché ero molto triste. Ma questo “not love” vuole effettivamente dire che se non abbiamo più un amore personale nella nostra vita possiamo però realizzare l’amore per tutti gli esseri, perché siamo più disponibili per aiutare gli altri, non essendo più limitati dal fatto di essere concentrati su di una sola persona.

- Si possono fare le due cose?

- Certo, è possibile, ma è più difficile, più complicato. Penso che si possa vivere un amore umano e al tempo stesso avere l’energia, il tempo e la disponibilità per gli altri, senza che questo amore diventi esclusivo. E’ esclusivo dal punto di vista della relazione personale, ma non per quanto riguarda la disponibilità per gli altri. E’ un livello differente. E’ vero però che tra i monaci e le monache c’è il desiderio di poter essere totalmente disponibili per l’amore universale, un amore che consiste nell’aiutare gli altri, un amore nato dalla benevolenza, non l’amore della passione e del desiderio come quello di cui si è parlato e che spesso entra un po’ in concorrenza con l’altro. Innanzi tutto penso che l’amore fatto di passione, di desiderio non escluda necessariamente una relazione di benevolenza, di compassione e di aiuto. Il fatto di desiderare qualcuno non implica necessariamente il non potere aiutare questa persona, nondimeno è più difficile, perché spesso si hanno difficoltà ad aiutare chi amiamo di un amore tenero e passionale. A volte non è una cosa semplice. Penso però che se si ha l’esigenza di vivere una relazione personale sia meglio viverla, cercando però di non esserne completamente assorbiti e mantenendo al tempo stesso la disponibilità per gli altri. Occorre trovare un equilibrio, questa è la cosa migliore, senza mai dimenticare che anche all’interno di una relazione personale siamo dei praticanti della Via e che quindi dobbiamo, per quanto è possibile, trasformare questo amore personale in una forma di pratica della Via. In ogni caso questa è la cosa che cerco di fare e che chiedo di fare agli altri. Dobbiamo però riconoscere che la tradizione dei monaci, non solo nello Zen ma in tutte le religioni, è sempre stata quella di aspirare a una disponibilità totale per un amore compassionevole e totalmente disinteressato, al di là della relazione di coppia. Questo è l’ideale del monaco, essere totalmente disponibile e questo ideale resta sempre presente, ma credo tocchi ad ognuno di noi risolvere questo nodo, come se si trattasse di un kôan personale. Non esiste nello Zen una prescrizione che impone di vivere soli, di consacrarsi totalmente agli altri. Ognuno deve trovare il suo equilibrio che del resto non è sempre lo stesso in ogni momento della vita. Va bene?

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- Ieri hai insegnato che in una esistenza precedente eravamo tutti parenti.

- Ho insegnato… aspetta … ho detto: è una credenza buddhista molto diffusa. Personalmente non diffondo credenze, dico solo che alcuni insegnano questo e che può aiutare ad avere uno spirito di benevolenza compassionevole nei confronti di tutti gli esseri viventi compresi gli animali, avendo la percezione del grande ciclo di rinascite che si estende di kalpa in kalpa, lungo miliardi di anni… se si crede al ciclo delle rinascite è facile immaginare di essere stati un tempo i genitori di un altro essere vivente. E’ una credenza che viene utilizzata in particolare nel Buddhismo Tibetano per incitare le persone che hanno difficoltà ad avere spontaneamente una comprensione della non-dualità e della compassione, per dire loro di fare attenzione, perché anche quel cane che si sta maltrattando potrebbe essere stato il proprio nonno o la propria nonna in una vita precedente. Penso che la pratica dello zen ci dispensi dal fare ricorso a questo tipo di fantasie per sentirci in comunione con un altro essere vivente, anche se evitiamo di schiacciare una formica sulla strada non c’é bisogno di pensare che avrebbe potuto essere nostra nonna. Evitare di schiacciare una formica è un sentimento naturale, non c’é bisogno di immaginare relazioni speciali. Preciso questo perché se il seguito della tua domanda riguarda questo, occorre essere chiari.

- Allora non ho più domande.

- Quale era la tua domanda?

- Non avevo afferrato bene, se non è l’ego a trasmigrare, se non sono le caratteristiche del nostro ego, allora non afferro bene il concetto.

- D’accordo! E’ l’eterna domanda: che cosa trasmigra? In genere la risposta migliore che si possa dare è: ciò che trasmigra non è un ego ma il karma, gli effetti karmici e le serie causali che si susseguono.

Penso però che tutte le risposte a questa domanda siano inadeguate. Preferisco considerare tutto questo come un mito che non può essere spiegato razionalmente, ci si crede o no, ma non credo sia indispensabile alla pratica della Via, anche se ho spesso ripetuto che considerare ciò che ci capita come il frutto del karma passato ci aiuta ad accettarlo e a considerarci responsabili della nostra vita.

E’ vero che questo pensiero aiuta, così come tutti i miti aiutano ad attribuire senso a ciò che non riusciamo a spiegare, offrendo un quadro esplicativo a cose che ci sembrano assurde ed aiutandoci a trovare un senso, ma credo che la pratica di zazen in sé e lo spirito che ci anima quando viviamo davvero a partire da zazen siano sufficienti per praticare la Via, senza bisogno di credenze.

Quando ne parlo cito quella che è la credenza generale dei buddhisti, ed è una buona credenza, dal momento che ve ne sono alcune negative che hanno effetti dannosi. Questa mi sembra una buona credenza che ha effetti positivi, quindi ve la propongo affinché valutiate se volete aderirvi, ma non l’ ho mai imposta nell’ambito di un insegnamento. Non ho mai detto che dovete credervi altrimenti non sarete buoni discepoli. Considero invece estremamente importante il fatto di sentirsi del tutto interdipendenti qui ed ora con tutti gli esseri, responsabili non solo della propria vita ma anche della causalità che noi stessi creiamo ad ogni istante, che produce effetti per noi nel futuro e per gli altri adesso e dopo, trovo che questo sia un aspetto davvero importante.

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-Volevo fare una piccola rettifica. Ieri ho parlato delle donne nel ventesimo secolo e dell’aborto, ma credo che avrei dovuto parlare piuttosto del diritto all’aborto. Non è la stessa cosa. Ho una nuova domanda da porre oggi...non vorrei cominciare dall’inizio...

- Bene, però sbrigati, perché la campana non tarderà a suonare!

- Allora, ecco, con un amico omosessuale ho voluto...

- Tu evolvi con un omosessuale?

- Ho voluto, ho avuto il desiderio di parlare con un amico omosessuale di zen e psicanalisi. E’ una persona che si interessa a ciò che si fa attualmente, che in un certo senso è all’apice della riflessione legata alla psicanalisi di Lacan...

- Cerca di essere sintetica perché rischi di fare domande troppo complicate!

- Dico questo perché gli ho detto: “Non ti pare che tutto ciò che mi racconti sia molto intellettuale?Non credo che possa aiutare qualcuno che sta soffrendo, anche se si dovrebbe fare una differenza tra la ricerca e...” Gli ho detto più o meno questo e lui ha reagito piuttosto male, mentre in realtà gli stavo chiedendo una spiegazione relativa a qualcosa che lui conosce molto bene e io meno. Il mio amico ha reagito male e credo sia questo che ha scatenato su Internet una valanga di testi sul Buddhismo nei quali si diceva che il Buddhismo respinge assolutamente l’omosessualità. E’ questo il punto al quale volevo arrivare.

- Ha creduto che la tua risposta un po’ brutale, la tua obiezione alle sue spiegazioni lacaniane nella quale chiedevi se era quello che risolveva davvero la sofferenza nascondessero dell’omofobia motivata dalla tua appartenenza al Buddhismo?

- No, non credo, ma dal momento che parlavo con entusiasmo della sesshin di Maredsous dell’anno scorso, penso che abbia voluto toccarmi dove pensava di farmi male, perché sentiva che era una cosa importante per me e io l’avevo senza dubbio ferito senza volerlo in ciò che lo interessava.

- Una sorta di rappresaglia …

- Sì, e poiché mi ha mandato dei testi che, confesso, non ho letto completamente, almeno in dettaglio, ma nei quali mi è parso di riscontrare un atteggiamento contrario all’omosessualità, volevo chiederti della situazione attuale.

(La campana comincia a suonare …)

- No!

- No in che senso?

- Non siamo omofobici…

- Bene, grazie Roland.

Domenica 11 dicembre 2004, kusen delle 7:00

Dopo questo zazen ci saranno le ordinazioni e poi un ultimo zazen, un ultimo pasto e la sesshin sarà terminata. Questi nove giorni sono passati rapidamente. Concentrandosi totalmente su ogni pratica durante questa sesshin ognuno ha avuto l’occasione di sperimentare l’unità della propria vita, della vita senza separazioni, senza opposizioni. Questa esperienza può proseguire ben oltre, è il senso profondo della sesshin. Non si tratta di vivere un tempo privilegiato e una esperienza eccezionale, ma di aprire il nostro spirito all’unità del corpo e dello spirito, non solo nella postura di zazen, ma in ogni azione della vita quotidiana.

Il Maestro Wanshi diceva: “Il corpo e lo spirito sono unità nella quiddità e al di fuori di questo corpo non vi è nulla.”

Questo significa che in questa unità del corpo e dello spirito è realizzata la natura stessa dell’esistenza e possiamo sperimentare il fatto di essere assolutamente quello che siamo. Tutti gli esseri sono assolutamente quello che sono, impermanenti, ma costantemente collegati agli altri. Questa è l’esistenza, esistiamo in quanto unici e non separati, ma anche se ora cerco di esprimere o di spiegare questo concetto, esso non può essere insegnato, ognuno deve realizzarlo intimamente. Ognuno di noi fa l’esperienza della solitudine, dell’essere unici ma al tempo stesso non separati o diversi dagli altri. Per questo, come diceva il Maestro Yoka, possiamo giocare insieme sulla Via del nirvana, la via della pace dello spirito e della grande libertà, apprendendo a rispettare le nostre differenze e al tempo stesso ad armonizzarci attraverso l’esperienza essenziale che facciamo della vita. Possiamo così realizzare uno spirito vasto ed aperto, che nulla può ostruire, proprio come il vasto cielo.

Il Maestro Wanshi ricorda ciò che si dice del saggio: “E’ senza ego ma non vi è nulla e nessuno che non sia lui.”

Questa esperienza non dovrebbe essere riservata ai grandi saggi, ma diventare la nostra. Quando il nostro spirito ristretto ed egoista si manifesta ne osserviamo la vacuità e proviamo simpatia nei confronti degli altri. In questo modo possono attualizzarsi nella nostra vita la saggezza e la compassione del Buddha, conferendole senso, permettendoci di vivere in armonia con quello che siamo in realtà. Possiamo così fare buon uso della nostra libertà e condividere la felicità della nostra pratica con gli altri, continuando a giocare insieme.

Traduzione: Maresa Myogen Di Noto