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L'associazione zen bodai dojo è membro dell' UBI, Unione Buddhista Italiana

 
Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
21/29 agosto 2004
Campo estivo della Gendronnière
Sessione diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

Insegnamento del Maestro Wanshi
''Il canto dell’illuminazione silenziosa''


Sabato 21 agosto 2004, kusen delle 8:00

Praticare zazen significa essere completamente seduti, pienamente seduti, solo seduti. Lasciate cadere tutto ciò che non ha nulla a che vedere con questa pratica della seduta, tornando costantemente ai punti importanti della postura, in particolare inclinate il bacino in avanti in modo da prendere appoggio con le ginocchia al suolo. Siamo seduti in zazen come se volessimo che l’ano guardasse verso il cielo. Tuttavia non tendete troppo le reni, perché il ventre deve rimanere rilassato. Ognuno deve trovare l’equilibrio della propria postura, la giusta tensione del bacino, delle reni e, a partire dalla vita, estendere la colonna vertebrale e la nuca come per spingere il cielo con la sommità del capo. Si abbandonano le tensioni della schiena, delle spalle, il mento è rientrato, la testa non cade in avanti, né indietro, né di lato. Il naso è sulla verticale dell’ombelico, le orecchie sulla verticale delle spalle. Lo sguardo è posato davanti a sé verso il suolo, gli occhi restano aperti. Non è necessario voler abbandonare i fenomeni visivi che sono intorno a noi, perché non ci si attacca alle forme percepite. Nulla può disturbare la pratica di zazen se non sussiste attaccamento agli oggetti dei sensi. La mano sinistra è nella mano destra, i pollici sono orizzontali, il taglio delle mani è in contatto con il basso ventre. Spesso le mani scivolano in avanti, occorre allora riportarle regolarmente in contatto con il basso ventre.

Durante zazen si riporta costantemente il corpo alla postura giusta. Certo, le nostre abitudini si manifestano, ma correggiamo regolarmente la postura. Questa pratica del tornare costantemente alla postura giusta è molto importante. Non siamo Buddha di marmo, ma esseri viventi. Anche la postura è viva, si muove impercettibilmente, e noi la riportiamo all’immobilità. Lo spirito si muove senza sosta e in zazen sorgono ogni sorta di emozioni, di ricordi, di desideri, ma non li seguiamo. Si riporta lo spirito al contatto con la postura. Piuttosto che seguire i propri pensieri, si segue la respirazione. Quando si inspira si è in totale unità con la propria respirazione, quando si espira si diventa un corpo-spirito che espira. Alla fine dell’espirazione si può tornare al punto zero, allo spirito completamente disponibile. Possiamo così porre la nostra attenzione sul contatto tra i pollici, un contatto dolce, senza tensione, con i pollici che restano orizzontali.

Quello che ho esposto fino ad ora rappresenta la base della pratica, che il Maestro Deshimaru ha ripetuto senza sosta durante quindici anni e che non abbiamo smesso di insegnare da allora. E’ a questo insegnamento che ritorniamo costantemente.

Questa concentrazione non si limita a zazen perché zazen è senza oggetto, e anche i punti di concentrazione che ho evocato alla fine vengono dimenticati. Dobbiamo semplicemente continuare zazen senza pensare a nulla di speciale. Questa concentrazione non è limitata al tempo di zazen, specie durante una sesshin come questa, ma continua in tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Questa concentrazione non si limita nemmeno alla concentrazione che permette di realizzare uno spirito chiaro, vedendo noi stessi come siamo, diventando intimi con noi stessi.

E, infine, questa concentrazione non si limita a noi, ma ci permette di realizzare la non-separazione tra noi e gli altri, rendendoci attenti agli altri come a noi stessi, senza creare differenze. In questo modo tutta la vita quotidiana della sesshin diventa l’occasione di continuare la pratica di zazen,una pratica che ingloba ogni cosa, permettendo di ritrovare l’unità della nostra vita con la vita di tutto l’universo, concretamente.

Domenica 22 agosto 2004, kusen delle 6:30

Durante zazen non seguite i vostri pensieri, non intratteneteli. Non cercate nemmeno di sopprimerli. Accontentatevi di riportare la vostra attenzione alla postura del corpo, estendendo le reni, la colonna vertebrale, la nuca e rientrando il mento. Ponete la vostra attenzione sulla respirazione senza cercare di trasformarla. Rilassatevi. Abbandonate le tensioni delle spalle, del ventre, ponete la vostra attenzione sul contatto tra i pollici, che sono orizzontali. Se praticate in questo modo la vostra agitazione mentale si calma naturalmente e lo spirito diventa chiaro.

Non attaccatevi né a questa calma né a questa chiarezza. Anche se vengono insegnati alcuni punti di concentrazione, quali la postura della schiena, la respirazione, il contatto tra i pollici, questi punti non devono diventare oggetto di attaccamento, ma semplicemente un luogo ove porre la vostra attenzione. In ultimo non bloccate il vostro spirito in alcun luogo. Quando si vuole fissare il proprio spirito su un punto particolare, si cerca di ottenere un effetto speciale. Si è disturbati dai pensieri e si cerca di smettere, ma in questo caso si rimane nel dualismo. Se continuate a praticare in questo modo zazen diventa una lotta, non troverete la vera pace dello spirito.

Quando si pratica zazen da qualche anno, si ha talvolta l’impressione che compaiano molti più bonno rispetto all’inizio. Alcuni possono avere l’impressione di regredire nella loro pratica, cominciando a dubitare di zazen e di sé. In realtà lo spirito diventa più penetrante, aumentando la capacità di illuminare le nostre illusioni. Vediamo più rapidamente quello che prima non vedevamo.

Kodo Sawaki esprimeva questo concetto dicendo che l’oscurità dell’ombra dei pini dipende dal chiarore della luna. Non opponeva oscurità e luminosità. Non rimpiangeva la comparsa delle illusioni. Semplicemente non dobbiamo seguirle. Lasciatele così come sono, inglobatele nello spirito vasto, largo di zazen. Se praticate così finiranno per esaurirsi da sole, e soprattutto perderanno il loro potere di governare la vostra vita. Anche se rimangono presenti, qualcosa di più forte ci dirige. E’ l’esperienza della vacuità, che non è altro se non ciò che si esprime con la natura di Buddha che, evidentemente, non è una natura, ma semplicemente la realtà della nostra vita.

Quando si comincia a praticare la Via, spesso si cambia soltanto oggetto di desiderio. Realizzare veramente la Via significa abbandonare ogni oggetto e anche ogni soggetto. Significa smettere di creare separazioni tra i bonno, il risveglio, la luce, l’oscurità, la Via e ciò che crediamo non essere la Via. E’ ciò che il Maestro Wanshi chiamava “La pratica dell’illuminazione silenziosa”, che sarà il filo conduttore della nostra vita durante questa sesshin, non solo per ciò che riguarda i kusen, ma tutta la nostra vita, non solo riferita a zazen, ma a tutte le nostre attività, anche il nostro riposo.

Domenica 22 agosto 2004, mondo delle 16:30

- Nel mondo attuale vi sono fenomeni non separati dalla vacuità. Anche nel mondo dei morti vi sono numerosi fenomeni, perché quando percepisco frammentariamente.....

- Non ne so nulla, bisognerebbe chiedere a un morto.

- Sì, ma nello Zen si dice sempre che si studia la vita e la morte e si parla molto poco della morte...

- Si studia la vita e la morte qui ed ora. Non si studiano i fenomeni del dopo-morte. Si studiano i fenomeni nella loro relazione con la vacuità ad ogni istante, qui ed ora. Questa è la migliore preparazione per continuare questa pratica al di là del passaggio della morte.

- Sì, ma proprio nelle esperienze che si hanno qui, frammentariamente, di contatti con la morte, di persone morte che continuano ad accompagnarci o a insegnare, tutto questo non mi dà l’impressione che si tratti di una estinzione.

- No.

- Non mi pare che la morte sia una estinzione.

- In effetti non si dice che la morte sia una estinzione.

- Allora cosa si dice?

- La morte è un passaggio, così come ogni istante è un passaggio. Ma quale è la tua domanda? Cosa ti preoccupa?

- Credevo di avere una nozione falsa tra ciò che recepivo del poco che si dice sulla morte nello Zen, che è un’estinzione, che è la vacuità, e la mia esperienza.

- Né nello Zen, né in nessuna scuola buddhista si dice che la morte è una estinzione. Quando si parla di estinzione nell’insegnamento del Buddha ci si riferisce all’estinzione dei desideri e delle illusioni, l’estinzione dei tre veleni, l’ignoranza, i desideri, l’odio. Questa estinzione è ciò che si definisce nirvâna, liberazione, pace dello spirito, qui ed ora. Questo non significa annientamento del processo di vita. Buddha è sempre stato contrario alla tesi nichilista per la quale, dopo la morte non ci sarebbe più niente e l’esistenza sarebbe annientata. I processi di interdipendenza continuano con la stessa relazione tra fenomeni e vacuità, che non sono mai separati. Ciò che è vero in questo mondo lo è anche negli altri. E’ la caratteristica precipua dell’esistenza. Esistere significa essere in relazione di interdipendenza e quindi non avere esistenza propria, separata. E’ ciò che definiamo vacuità. Tu confondi vacuità e nulla. La vacuità è sempre in rapporto a qualcosa. I fenomeni sono vuoti di sostanza, allo stesso modo che una stanza vuota è vuota di mobili. Questo non significa che la stanza non esiste, ma solo che è vuota, che non ci sono mobili. La vacuità stessa è vuoto, non esiste da se stessa. Non esiste un concetto di vacuità in sé. La vacuità esiste in rapporto all’assenza di qualcosa. Questo qualcosa che è assente è sempre sottinteso quando si parla di vacuità. D’accordo? Sei sicura? La risposta ti ha chiarito?

- Sì.

* * * * * * * * * *

- Vorrei sapere se la pratica di zazen è sufficiente da sola a sperare di mettere in luce e di estirpare dall’inconscio le sofferenze che risalgono all’infanzia e che ci condizionano, creando in noi blocchi che si manifestano con chiusure, inibizioni. Oppure, giunti a un certo punto, occorre ricorrere alla psicoterapia per superare eventualmente tappe esistenziali.

- Può essere necessario fare ricorso a una psicoterapia proprio per evitare di chiedere a zazen di sostituirsi ad essa. Zazen non è una psicoterapia, si situa oltre. Nondimeno ha degli effetti terapeutici, tra i quali il principale consiste nel togliere drammaticità alle sofferenze, imparando a convivere con esse e facendo sì che non diventino più un ostacolo alla vita. La sofferenza psichica rende quasi impossibile la vita di molte persone, intralciandole enormemente. La pratica di zazen permette di mettere ogni cosa al suo posto. Il passato è il passato. I genitori che abbiamo avuto, con i quali abbiamo potuto avere dei conflitti, delle difficoltà, non sono quella persona che ora è di fronte a noi. In genere si proiettano le storie del passato sul presente. La pratica di zazen ci insegna a percepire molto presto ciò che viene da sé, le nostre proiezioni mentali, le nostre fabbricazioni, che non hanno nulla a che vedere con la realtà presente. Questo non ci impedisce di fare proiezioni. E’ un grande aiuto, ma a volte può non essere sufficiente, soprattutto perché non ci concentriamo abbastanza a questo proposito. Quando qualcuno ha un passato troppo doloroso, con troppe sofferenze e conflitti, occorre davvero lavorarci sopra, facendo emergere le emozioni nascoste, relative a quanto è successo. Per fare questo abbiamo bisogno di una persona che accompagni questa esplorazione dolorosa. Questo non è lo scopo dello Zen, ma talvolta accade che in zazen risalgano bolle dal passato e, nel momento in cui le vediamo a partire dalla coscienza hishiryô, riusciamo a rimetterle al loro posto, a sdrammatizzarle. Dunque, a volte zazen basta largamente. Se invece vi rendete conto che nella vostra pratica permangono sofferenze ricorrenti che diventano ostacoli per la vostra vita, allora continuate zazen, ma cercate anche di trattare il problema altrove, non dimenticando che zazen si pone ben oltre la necessità di risolvere le sofferenze del passato.

In zazen impariamo a non creare sofferenze qui ed ora, impariamo a vivere con ciò che siamo in realtà, che non è limitato al nostro karma passato, alla nostra storia. Zazen ci mostra questa dimensione, ma se lo utilizziamo solo per risolvere il karma passato, riduciamo di molto la sua dimensione e ci ritroviamo con una pratica limitata. E’ un peccato. Come diceva Kodo Sawaki, non bisogna ridurre zazen alla dimensione di un pomodorino, usandolo per curare il nostro ego. Zazen deve poter sbocciare nella sua vera dimensione, e voi dovete, grazie alla stessa occasione, seguire la più alta dimensione di zazen. Questa dimensione può trascinare via molte illusioni e sofferenze. Penso che in generale si dia troppa importanza al voler risolvere le proprie sofferenze, cioè a voler eliminare il negativo. Diamo loro troppa importanza, invece di concentrarci sulla dimensione vasta, positiva della vita di ogni istante che relativizza e mette al giusto posto le storie vecchie, aprendoci a una dimensione molto più importante. E’ su questo che ci si deve concentrare quando si pratica zazen. D’accordo?

Domenica 22 agosto 2004, mondo delle 20:30

Ogni sera, durante zazen, possiamo percepire il silenzio profondo del dojo. Non è un silenzio legato unicamente all’assenza di rumore. Anche quando qualcuno tossisce o un gufo canta, questo non fa che accrescere ancora di più il silenzio. E’ il vero silenzio dello spirito in zazen, il silenzio che si produce quando si smette di fare qualunque cosa, quando si diventa veramente unità con la realtà di ogni istante. La realtà di questo istante talvolta può essere semplicemente la voglia di starnutire, un dolore al ginocchio, un pensiero stupido che appare, il rumore della respirazione del nostro vicino.

Per il nostro spirito ordinario questa realtà resta spesso insignificante, poco interessante, allora si comincia a fabbricare ogni sorta di pensieri per sfuggire a questo istante, perché si ha l’impressione che sia insufficiente o che gli manchi qualcosa. E raccontiamo a noi stessi delle storie. Tutta la nostra vita passa così, a raccontarci delle storie.

Se abbandoniamo il funzionamento dello spirito che giudica, che ama, che respinge, che paragona, che misura, allora anche la più infima esperienza di questo istante diventa illimitata. E’ penetrare ciò che Wanshi chiama “Il campo della vacuità immacolata e brillante”. Immacolata, cioè senza impurità, luminosa, della quale non si possono vedere i limiti con le capacità del nostro occhio ordinario. Nemmeno la forma può essere realizzata col nostro spirito condizionato. E’ vasta e completamente serena, al di là delle stesse qualificazioni. Vuol dire mettere l’esistenza in questo istante, senza nulla che la limiti. Quando si sperimenta questo, non si ha più bisogno di raccontare storie a se stessi, il nostro spirito diventa molto più semplice e chiaro.

Lunedì 23 agosto 2004, kusen delle 6:30

Durante zazen non fissate il vostro spirito su un punto speciale. Anche se questa tecnica all’inizio aiuta a concentrarsi, quando lo spirito ha ritrovato la sua calma è preferibile abbandonare ogni punto speciale di concentrazione realizzando uno spirito vasto, senza oggetto particolare, che sperimenta direttamente la realtà quale si manifesta, in ogni fenomeno che incontriamo, al di là dei nostri pensieri, dei nostri giudizi, delle nostre preferenze, delle nostre avversioni, di categorie mentali quali fenomeni e vacuità, verità o illusione.

Il Maestro Dôgen insegnava questo modo di praticare, che gli era stato ispirato dall’insegnamento del Maestro Wanshi, che il suo Maestro Nyojô e lui stesso ammiravano profondamente.

Wanshi è un monaco cinese che visse un secolo prima di Dôgen, nel XII secolo. Era diventato monaco all’età di undici anni. Aveva praticato con un maestro della scuola Sôtô che si chiamava Kumi. Questo maestro insisteva sulla pratica dello zazen immobile come un albero. E’ su questa pratica che continuiamo a concentrarci: il bacino inclinato in avanti, le ginocchia radicate al suolo, la colonna vertebrale estesa verso l’alto, senza muoverci quali che siano i fenomeni che si manifestano, senza muovere il corpo, ma anche senza muovere lo spirito, senza perseguire nulla. Quando si pratica in questo modo lo spirito ritrova naturalmente il suo carattere vasto, illimitato. Il Maestro Wanshi si era risvegliato sentendo una frase dell’Avatamsaka Sûtra che dice: “Gli occhi che ci hanno dato i nostri genitori possono contemplare tremila mondi.”

Tremila o diecimila rappresenta un numero infinito, illimitato. Si tratta degli occhi dell’intuizione, dello spirito che ingloba tutto, che non è limitato da categorie mentali quali vicino o lontano, piccolo o vasto. Sono gli occhi che ci sono stati donati dai nostri genitori, che a loro volta hanno ricevuto dai loro genitori, cioè che non sono il risultato o il prodotto della pratica.

Non è zazen a produrre questa intuizione, ma ci permette di ritrovarla facendoci abbandonare tutto ciò che offusca il nostro sguardo, il nostro spirito. All’età di ventitré anni Wanshi incontrò il Maestro Tanka Shijun, un altro grande maestro della discendenza Sôtô. Questo maestro gli chiese: “Qual è il tuo autentico sé prima del kalpa del vuoto?” Cioè, qual è l’essenza della tua esistenza, al di là del tuo ego limitato? Questa domanda, evidentemente, non è posta solo a Wanshi, è il kôan essenziale della nostra pratica. Wanshi aveva risposto: “Una rana sul fondo di un pozzo inghiotte la luna. A mezzanotte non prendo a prestito una lanterna.”
Tanka lo colpì dicendo: “Dici che non prendi a prestito?” E Wanshi si risvegliò.
Allora Tanka gli chiese: “Perché non dici niente?”
E Wanshi: “Oggi ho perso del denaro e sono stato punito.”
Allora Tanka concluse: “Non ho il tempo di batterti.”
Quest’ultima risposta significa: “Non ho più bisogno di batterti.”
In seguito Wanshi ricevette lo shihô dal Maestro Tanka Shijun, si stabilì al monastero del monte Tendô, Tendôsan, dove, un secolo più tardi, il Maestro Dôgen avrebbe incontrato Nyojô.

Benché l’esperienza dello Zen sia interamente contenuta nella nostra pratica di zazen, l’esempio e l’insegnamento degli antichi maestri ci aiutano a rivelare l’autentico senso della nostra pratica. E anche se per un poco prendiamo a prestito le loro lanterne, se ritorniamo all’esperienza che ci hanno trasmesso, allora non abbiamo più bisogno di prendere a prestito nulla. E anche se perdiamo del denaro, tuttavia non siamo poveri.

Lunedì 23 agosto 2004, mondo delle 16:30

- Ho difficoltà a prendere le decisioni e vorrei sapere cosa si può dire sull’intuizione. Cos’è l’intuizione?

- La migliore intuizione consiste nell’essere in contatto con se stessi e nel comprendere se stessi, questa è la chiave per poter prendere decisioni giuste, decisioni delle quali non pentirsi.

Spesso le persone non sanno in quale direzione indirizzare la loro vita perché non sono in contatto con se stessi, non si comprendono, allora ascoltano l’opinione degli altri oppure seguono dei valori sociali, dei pregiudizi, i desideri degli altri, ad esempio i desideri dei genitori e delle persone vicine, prendendo così decisioni che non corrispondono loro.

L’intuizione non consiste soltanto nel comprendere se stessi nel senso di capire quali sono i desideri reali, profondi, il nostro bisogno. L’intuizione autentica consiste nel risvegliarsi alla vera natura della propria esistenza, cioè la natura di sé non limitata al sé, al proprio piccolo ego. E’ l’intuizione del bodhisattvâ, l’intuizione che permette decisioni che non tengono conto solo di sé, limitate all’idea che ci si fa di sé, in genere qualcosa di delimitato, vedendo invece che viviamo in costante relazione di interdipendenza con gli altri, con il nostro ambiente e dunque tenendo conto di questa interdipendenza per prendere una decisione che non sia troppo egoistica e che tenga conto della realtà, cioè della nostra non-separazione dagli altri. Più questa intuizione è profonda più le decisioni possono essere giuste. Questo si sviluppa in particolare praticando zazen.

Se tu però pensi come fanno molti che l’intuizione consista nell’avere una sorta di chiaroveggenza o di premonizione dell’avvenire, cosa che molti definiscono spesso con la parola intuizione, allora potresti anche pensare come loro che se potessi indovinare cosa succederà nel futuro potresti tenerne conto per prendere la tua decisione. Questo potere di chiaroveggenza riguardo al futuro è molto raro e, in ogni caso, non cerchiamo di svilupparlo. Coloro che vedono l’intuizione soprattutto in questo modo, mettendo l’accento su questa chiaroveggenza, si ingannano completamente, perché spesso confondono i propri desideri o i loro timori con l’intuizione del futuro e in questo caso l’intuizione può trasformarsi in una trappola, dunque sarebbe meglio diffidare di ciò che si crede sia la propria intuizione.

- Dunque occorre sviluppare l’intuizione…

- ...l’intuizione nel qui ed ora, non praticare dicendosi: “Sto diventando chiaroveggente, predirò l’avvenire come coloro che leggono nelle sfere di cristallo.”

E’ importante essere capaci di comprendere ad ogni istante cosa è veramente importante, qui ed ora, tenendo conto del fatto che qui ed ora non sei solo, ma sei nel cuore, nel contro di una rete di relazioni, in una posizione che nello Zen si chiama dharmica, una posizione di interdipendenza piena di connessioni, che ti costituisce qui ed ora.

-Non c’è un momento in cui le cose sono talmente complesse proprio a causa di questa rete che…

- Sì, chiamiamo questa complessità vacuità.

- In fondo è molto semplice...

- Sì, in un certo senso. In definitiva non possiamo afferrare, dominare tutto. Dobbiamo fare del nostro meglio per prendere decisioni che siano meno egoiste possibili.

* * * * * * * * * *

- La mia domanda riguarda un pensiero che è apparso e che non vuole andare via.

- Dove è apparso?

- Durante zazen

- Nel tuo spirito?

- Sì, c’è un pensiero, un’immagine, Buddha sotto un albero morto nel deserto. Questo pensiero è venuto e non vuole passare, ci penso sempre. Si è formata così una domanda: Buddha è sotto il suo albero, se non ha ricevuto il suo sapere da nessuno, perché ha poi creato una discendenza, perché ha trasmesso se nessuno gli ha trasmesso, perché ha creato dei bodhisattvâ se nessuno lo ha ordinato bodhisattvâ?

- Nella tradizione dello Zen si dice che nelle sue vite precedenti il Buddha fosse un bodhisattvâ ed avesse ricevuto l’insegnamento dai Buddha precedenti. Questo è il modo tradizionale dei buddhisti di rispondere alla tua domanda. Io penso che il Buddha abbia ricevuto la trasmissione di zazen attraverso la sua pratica di zazen e della realtà cosmica fondamentale, che ha sperimentato nella sua pratica. Si parla sempre di trasmissione da persona a persona, ma la vera trasmissione è quella da se stesso a se stesso. Certo, ci sono maestri che trasmettono l’insegnamento, che mostrano il cammino, ma nessun maestro ha mai potuto realizzare il risveglio al posto del suo discepolo, ognuno deve risvegliarsi da solo.

Anche il Maestro Dôgen che considerava la trasmissione come una cosa molto importante, parlava di trasmissione da se stesso a se stesso. Il maestro mostra il cammino e poi conferma che questo cammino è stato realizzato, ma non può fare altro. Al Buddha è successo questo. Non ha avuto un maestro che lo confermasse, ma aveva una realizzazione talmente forte da non avere nessun dubbio sulla fede nell’esperienza che aveva realizzato, che ha consentito ad altri di incontrare, penso in particolare ai suoi primi discepoli.

Dal momento in cui ha cominciato a mostrare la Via e dopo aver dubitato di trasmetterla, i suoi primi discepoli sono stati impressionati non solo dal suo esempio, dal suo insegnamento, ma dalla consapevolezza, derivata dalla comprensione realizzata attraverso la pratica, che questa trasmissione si realizzava nella condivisione della pratica. Senza pensare al tempo di Shakyamuni o alla tua immagine del Buddha nel deserto, direi che è quanto è successo con il Maestro Deshimaru e i suoi discepoli quando è venuto in Europa. Si è creata una reale trasmissione dell’esperienza della pratica di zazen, talmente forte che continua ancora oggi. E’ questa la cosa importante, la trasmissione di un’esperienza e dei mezzi per realizzarla nella pratica. Non è quindi il caso di interrogarsi tanto a proposito di Shakyamuni e dei Buddha del passato. A mio parere questo non cambia la tua personale esperienza nel corso di questa sesshin. E’ questo che è importante. Durante zazen, invece di sognare di Shakyamuni sotto il suo albero, concentrati sulla tua pratica. Diventa Shakyamuni stesso. D’accordo? Non del tutto? Sì?

- Quello che mi disturba è che ho l’impressione che posso apprendere sia ciò che riguarda lo zen pratico, cioè i precetti, sia ciò che non ha niente a che vedere.

- Cosa non ha niente a che vedere?

- Quando non pratico zen, quando sono immerso nella vita quotidiana, non durante la sesshin, cosa che fa la specificità di...Mi sto imbrogliando...

- Ascolta, ti propongo di concentrarti bene sulla tua pratica durante questa sessione e poi, eventualmente, di tornare a porre la tua domanda quando sarà un po’ più chiara.

Martedì 24 agosto 2004, kusen delle 6:30

Durante zazen tornate costantemente alla concentrazione sulla postura. Estendete le reni, la colonna vertebrale, la nuca e rientrate il mento. Anche se pratichiamo da tempo, la nostra postura ha spesso la tendenza ad allentarsi. Occorre allora tornare costantemente alla concentrazione sulla postura più corretta che si possa assumere, ritrovando così una concentrazione fresca e nuova.

La stessa cosa deve avvenire per la concentrazione sulla respirazione. Anche se tutto questo viene insegnato costantemente, spesso si dimentica di praticarlo. E’ concentrandosi sulla respirazione che Shakyamuni divenne Buddha. Questo è il metodo migliore per sbarazzarsi delle vecchie abitudini, delle elucubrazioni mentali, di quanto immaginiamo e al quale ci attacchiamo durante la pratica di zazen. La concentrazione sull’espirazione spazza via tutto ciò. Il Maestro Wanshi diceva: “Dovete purificare, guarire, ridurre in briciole e spazzare via tutte le tendenze che avete fabbricato con le vostre abitudini. Poi potrete dimorare nel cerchio chiaro.”

Concentrarsi significa ritornare costantemente al centro della nostra esperienza, qui ed ora, lasciando cadere tutto quanto è fuori da questa esperienza, quello che le nostre costruzioni mentali aggiungono al fatto di essere pienamente seduti, presenti in questo dojo. Proprio ora.

Praticare una sesshin, un campo estivo, è l’occasione di osservare quanto siamo condizionati dalle nostre vecchie abitudini, quanto progressivamente la nostra vita rischia di diventare sempre più limitata. Vedere che è possibile lasciarle cadere, perché non resistono alla concentrazione sulla respirazione. Possiamo così realizzare intimamente che non hanno sostanza, che non ci costituiscono, non ci appartengono, fanno parte solamente di una certa idea che ci facciamo di noi.

Molti non osano avventurarsi su questo cammino, per paura di non essere infine assolutamente niente, mentre questa è invece l’occasione per risvegliarci a ciò che siamo veramente nel profondo. E’ ciò che Wanshi definiva “il campo vuoto e luminoso” e Dôgen “la nostra autentica natura del Buddha”, la nostra esistenza senza separazioni.

Il Maestro Wanshi era rimasto molto impressionato da questa frase dell’insegnamento che dice: “Il saggio è senza ego, ma non c’è nulla che non sia esso stesso.”

Ieri molte persone mi hanno detto di non aver ben sentito o di non aver compreso la storia della rana

nel pozzo. La rana in fondo al pozzo siamo noi, voi ed io, qui ed ora. Come può inghiottire la luna?

A livello logico non è possibile.

Se si abbandona lo spirito che crea separazioni, che si percepisce come piccolo mentre la luna è grande, che si vede qui mentre la luna è là in alto, se, dicevo, si abbandona questo spirito, allora non c’è più nemmeno bisogno di inghiottire la luna, di volerla afferrare. E’ lei che viene a noi. Ma ognuno di noi deve realizzare tutto ciò da solo.

Anche se prendiamo a prestito la lanterna da qualcuno, in definitiva dobbiamo essere capaci di illuminare la nostra vita e noi stessi. Proprio come Tokusan quando Ryutan spense la lanterna che gli aveva appena presentato.

Martedì 24 agosto 2004, mondo delle 16:30

- Sto per partire per un viaggio di un anno in Cina, Tibet e India. Vorrei utilizzare il mio nome di bodhisattvâ. Ho sentito però che il nome da bodhisattvâ si usa solo dopo la morte. Mi è stato anche detto che è il nome da monaco ad essere usato dopo la morte. Nessuno pare potermi dare una risposta. Allora lo chiedo a te.

-Si può usare il nome da bodhisattvâ per tutta la vita ed effettivamente è il nome da monaco ad essere utilizzato dopo la morte. Una volta che la persona è deceduta la si nomina col nome da monaco. Tuttavia la domanda importante è perché vuoi utilizzare il tuo nome da bodhisattvâ durante questo viaggio. Avrai problemi con i documenti, perché a mio avviso non è sul passaporto.

- Vorrei usare il nome da bodhisattvâ perché credo che il mio nome non mi corrisponda più. Sono molto cambiato in questi ultimi anni. Il mio nome significa guerriero potente, forte. Un tempo sono stato più aggressivo, ora sono molto più pacifico. Mi piacerebbe continuare ad essere bodhisattvâ e per questo mi piacerebbe utilizzare questo nome.

- Qual è il tuo nome da bodhisattvâ? Ho dimenticato...

- Grande pratica o grande praticante.

- Se vuoi, se questo ti aiuta a ricordare questa grande pratica, a continuare a praticare durante il tuo viaggio. Ma, al tempo stesso, bisogna evitare che questo diventi una illusione. Tu sei anche l’uomo nato dai tuoi genitori, non solo l’uomo nato dalla pratica della Via del bodhisattvâ. Sei entrambi. E’ importante armonizzare i due aspetti. Attaccarsi al proprio ego, alla propria identità sociale, civile, specie quando, come dici, è associato all’aggressività, certo non va bene. Ma se ti poni troppo sull’altro versante, se ti identifichi solo con un ideale, rischi di essere tagliato in due, una parte di te non è insieme con l’altra. Ti consiglio di non attaccarti troppo al nome, ma piuttosto alla pratica, alla grande pratica. Realmente! Non al nome! Questa grande pratica consiste proprio nell’armonizzare i fenomeni della nostra vita e il nostro ego limitato, i nostri condizionamenti, con la dimensione della vita che ci è rivelata nella pratica di zazen. Occorre davvero che i due aspetti si armonizzino, vadano di pari passo.

- Mi piacerebbe anche durante il mio viaggio fare il passo di diventare monaco.

- Non sono sicuro di aver capito bene, puoi tradurre?

- Il viaggio è per me un passo per diventare monaco. E’ tra l’altro la ragione per la quale vorrei utilizzare il mio nome da bodhisattvâ.

- Certo è un’idea romantica il dirsi che si parte per un viaggio sulle tracce del Buddha, in India, in Cina, ma non è necessario per diventare monaci. Diventare monaci è qui ed ora. Convertire il proprio spirito proprio per seguire la pratica dell’essenziale. Non c’é bisogno di fare migliaia di chilometri per questo. Detto questo ti auguro buon viaggio.

* * * * * * * * * *

- Ritengo che si accordi una certa importanza alla genealogia, poiché recitiamo il sûtra dei Patriarchi molto spesso. Anche nella nostra esistenza individuale credo si tratti di una cosa importante. La domanda che vorrei porre è sorta poco fa, si è manifestata nel mio cervello ed è la seguente: quale sarà la nostra genealogia qui ed ora e nel futuro, dal momento che è di notorietà pubblica che i godo, i maestri attuali, da un lato sono stati discepoli del Maestro Deshimaru e dall’altro hanno ricevuto lo shihô da un altro maestro. E, per complicare le cose, alcuni monaci hanno ricevuto l’ordinazione da godo che non hanno lo shihô. Dal punto di vista genealogico non siamo gli eredi del Maestro Deshimaru.

- Lo siamo perché ciò che conta nella genealogia è lo spirito che è trasmesso. Lo spirito della pratica che ti è stato trasmesso, che viene trasmesso qui, è lo spirito trasmesso dal Maestro Deshimaru. Non si deve avere nessun dubbio a questo proposito. Certo, ora ogni godo ha creato il suo ketsumyaku, e non so esattamente cosa hanno fatto i miei condiscepoli. In ogni caso ho mantenuto la genealogia del Maestro Kodo Sawaki e del Maestro Deshimaru sulla parte sinistra del ketsumyaku, perché anche se non ho ricevuto lo shihô dal Maestro Deshimaru, ho ricevuto il suo insegnamento ed è questo insegnamento che voglio trasmettere; mentre sulla parte destra mantengo la genealogia di Niwa Zenji che ha confermato la trasmissione dell’insegnamento del Maestro Deshimaru. Mi sembra il modo più semplice e corrispondente alla realtà. Spero che altri facciano la stessa cosa, ma io non sono gli altri e non posso certificare ciò che ciascuno conta di fare.

- A volte nella genealogia dei maestri si vedono linee interrotte, ad esempio la discendenza del Maestro Yoka, un maestro celebre, si è interrotta.

- Sì, ma penso che non ci si debba attaccare troppo a questo aspetto formale della genealogia. Ad esempio, proprio nel caso celebre di Yoka, anche se sulla carta la sua discendenza si è arrestata, tutti i maestri zen, ancora oggi, circa tredici secoli dopo la sua morte, continuano ad ammirare lo Shodoka e ad ispirarsi ad esso nella loro pratica e nel loro insegnamento. E’ questa la cosa importante, la trasmissione dello spirito. La genealogia esiste semplicemente per certificare, confermare, dare forma tangibile a ciò che non è afferrabile, la trasmissione dello spirito. Se ci si attacca troppo alla genealogia, dimenticando la trasmissione dello spirito, basandosi sulla carta, allora ci si inganna completamente. Sto per dirvi qualcosa che sicuramente vi stupirà, ma a volte è positivo essere stupiti, in realtà la genealogia è stata inventata dai cinesi. E’ tutto. E’ del tutto ipotetica. La genealogia da Sakyamuni Buddha fino a Bodhidharma e anche fino ad Eno, è molto ipotetica! Dopo Eno è abbastanza chiara. Nondimeno i cinesi, che sono molto attaccati a tutto questo e volevano soprattutto affermare l’autorità della scuola Zen dicendo: “possediamo la nostragenealogia!”, hanno costruito tutto questo per affermare di essere gli eredi del Dharma del Buddha, ma i loro metodi erano talvolta un po’ straordinari in rapporto al metodo tradizionale.

Hanno costruito questa genealogia, la rispettiamo, ma se la si rispetta nello spirito, cioè dicendo che lo Zen che si pratica proviene dal Buddha e ci è stato trasmesso attraverso generazioni di maestri, cosa che è vera in ogni caso, quale che sia la genealogia, non abbiamo inventato zazen, allora va bene. Ma se di colpo si diventa notai dello Zen, preoccupandosi troppo di problemi che sono solo sulla carta, allora credo che ci si inganni. Occorre semplicemente che i godo che trasmettono il ketsumyaku, trasmettano un ketsumyaku che corrisponda alla realtà dell’insegnamento e della pratica che hanno ricevuto, avendo fiducia in questo spirito della pratica e nel volerlo trasmettere. E’ questa la cosa importante, senza trasmettere complicazioni dello spirito degne di notai dello zen.

- Vorrei semplicemente dire che può esserci a livello individuale una preoccupazione legata a questa autenticità, proprio come le turbe mentali che si creano in una famiglia quando ci sono genealogie un po’ sospette. E’ un po’ questo aspetto che è vissuto da questa o quella persona del Sangha.

- Allora, proprio a quel punto, occorre ritornare a ciò che costituisce veramente l’essenza dell’insegnamento dello Zen, al fatto che in realtà non c’é trasmissione. L’ho detto l’altro giorno, lo Zen è la trasmissione da se stessi a se stessi. Alla fine non si può trasmettere nulla. Non c’è qualcosa che è trasmesso da maestro a discepolo, questa è una illusione. La certificazione è la vostra realizzazione. La malattia dello Zen è il non avere fiducia in questo, chiedendo sempre agli altri, volendo essere certificati dagli altri, volendo sempre prendere a prestito la lanterna degli altri.

Mercoledì 25 agosto 2004, kusen delle 6:30

Quando si pratica zazen si comincia con la concentrazione sulla postura. Non solo ci si comincia a concentrare su questa postura, ma si ritorna costantemente a questa concentrazione. Ci si concentra sulla respirazione, si ritorna costantemente a lunghe espirazioni, sentendo tutta l’energia dell’espirazione sotto l’ombelico. E’ la base della nostra pratica, che consente allo spirito di ritrovare la calma e la serenità, e all’intuizione di manifestarsi, senza essere più bloccata dall’agitazione mentale. Se ci si accontenta di questo stato di tranquillità, non si può realizzare il risveglio autentico, cosa che il Maestro Dawi rimproverava ad alcuni discepoli di Wanshi, ristagnare nella tranquillità invece di risvegliarsi profondamente. Lo stesso Wanshi insegnava certo l’equilibrio, l’armonia, la pratica della concentrazione che conduce alla pace dello spirito, l’osservazione di sé che permette di risvegliarsi. Secondo coloro che criticavano il suo insegnamento, l’illuminazione silenziosa era un errore, perché c’era soprattutto silenzio e non molta illuminazione. Wanshi ha accettato questa espressione per definire il suo insegnamento poiché preconizzava l’equilibrio tra il silenzio, la calma e il risveglio. E’ ciò che insegnava anche il Maestro Deshimaru, l’equilibrio tra la concentrazione e l’osservazione.

Durante zazen volgiamo il nostro sguardo verso l’interno, lasciamo che la pratica stessa ci illumini. Illuminiamo i nostri pensieri, tutte le manifestazioni del mentale sono illuminate dalla coscienza hishiryô di zazen. Questo è possibile solo se non si seguono i pensieri, se si ritorna regolarmente alla postura e alla respirazione. A quel punto tutti i pensieri, tutti i desideri, tutte le emozioni che appaiono sono come bolle che scoppiano rapidamente. Tutti i karma passati, i vecchi condizionamenti, si manifestano e si esauriscono, poiché non li si alimenta, non si fornisce loro energia. L’energia è utilizzata nella postura, nella respirazione. In questo modo si può prendere coscienza dei propri errori passati e pentirsene, vedere gli errori realmente.

Ieri mattina abbiamo saputo che qualcuno ha rubato del denaro dalla borsa di una monaca. E’ una delle cose peggiori che si possa fare nella vita in generale e in particolare in un tempio, è karma negativo. Non solo si provoca sofferenza alla persona che si trova sprovvista del denaro che le è stato rubato, ma si turba anche lo spirito di coloro che vengono a conoscenza del fatto. Ci si chiede come sia possibile una cosa simile in un tempio. A cosa serve praticare se poi ci si comporta come la peggiore tra le persone ordinarie? Per la persona che ha commesso l’atto il karma è tradito, nel senso della sua pratica e della sua presenza qui. Non ha senso rimanere in un tempio con un tale atteggiamento. Non rubare è il secondo precetto del Buddha, dopo non uccidere. Rubare rappresenta proprio l’espressione dell’avidità dell’ego, la causa principale di tutte le illusioni e di tutte le sofferenze. Significa soprattutto dimostrare che non si è capito nulla, non solo dello Zen, ma anche della vita, poiché nella vita non ci si può appropriare definitivamente di nulla, nulla può appartenerci. Anche il nostro corpo non ci appartiene. Se non ci si può attaccare nemmeno al proprio corpo, come ci si potrebbe attaccare a una banconota da cento euro ? La cosa migliore che possa fare la persona che ha commesso questo gesto, se desidera continuare a praticare e se non vuole ridurre in polvere il senso della sua pratica, è di rimettere la somma di denaro in una busta sopra l’altare del dojo o del refettorio, recitando il Sangemon, il sûtra del pentimento. Attraverso questo pentimento l’azione può diventare in quel momento fonte di risveglio. Altrimenti continuare la pratica sarebbe uno sforzo inutile, tempo perso.

Il precetto che dice non rubare, come tutti i precetti del Buddha, che coloro che riceveranno l’ordinazione faranno il voto di proteggere, non rappresenta semplicemente una regola di buona condotta. I precetti sono l’espressione della nostra autentica natura di Buddha. La pratica dell’illuminazione silenziosa che attuiamo qui ha proprio il senso profondo di consentire a questa natura di esprimersi in tutti gli aspetti della nostra vita. Il Maestro Wanshi diceva: “ Coloro che praticano sinceramente la meditazione ne realizzano il senso autentico, hanno fede nel fatto che questa natura è sempre con loro. Spero che questa fede possa svilupparsi nello spirito di ciascuno di noi.”

Venerdì 27 agosto 2004, kusen delle 6:30

Durante zazen non lasciate cadere la testa in avanti, non lasciate che la schiena si incurvi. Rientrate il mento, mettete energia nelle reni inclinando il bacino in avanti. Poggiate le ginocchia al suolo, estendete il corpo tra cielo e terra. Rilassatevi, abbandonate le tensioni inutili delle spalle, rilassate il ventre. Lo sguardo è posato davanti a sé verso il suolo, è inutile chiudere gli occhi durante zazen, perché se non ci si attacca agli oggetti della visione, allora nulla di ciò che ci circonda ci disturba. Non fissate nemmeno un punto speciale. Il modo di porre lo sguardo durante zazen influenza completamente lo stato d’animo. Si dice sempre che lo sguardo è volto verso l’interno, non ci si attacca più ai fenomeni intorno a noi, ci si accontenta di essere completamente intimi con il proprio corpo, la respirazione, si osserva il funzionamento dello spirito senza attaccarci ad esso. Non si cerca di eliminare i pensieri, li si osserva come costruzioni mentali senza sostanza, alle quali non ci si attacca. Si lasciano apparire le emozioni se si manifestano, senza reprimerle e senza compiacersi di esse. Si percepisce chiaramente il mondo intorno a sé, senza creare opposizioni tra esterno e interno. Si diventa come le finestre del dojo che aprono sia sull’interno che sull’esterno. Lo sguardo volto verso l’interno non crea opposizioni, separazioni, ma osserva la vacuità di tutti i nostri processi mentali, che non hanno più consistenza delle bolle che risalgono alla superficie dell’acqua. Siate attenti a non creare nuovi oggetti di attaccamento. Ad esempio, la postura di zazen stessa non è un oggetto di attaccamento. Si diventa completamente il corpo seduto in zazen e questo corpo è abbandonato a zazen, portato da zazen. Così, senza avere bisogno di grandi sforzi di volontà, si può continuare a praticare con uno spirito libero qui ed ora, subito! Per ciò che riguarda l’osservazione del proprio spirito esso è completamente inafferrabile. Ogni oggetto è realmente abbandonato in zazen, non perché avere un oggetto sia qualcosa di male, ma perché si realizza profondamente che è del tutto illusorio. Allora, senza più dimorare su alcun oggetto, lo spirito diventa vasto, fluido e luminoso, poiché si abbandona tutto ciò che abitualmente lo oscura. Possiamo così ritrovare ciò che il Maestro Deshimaru chiamava la nostra autentica condizione normale e che il Maestro Wanshi chiamava il campo della vacuità luminosa e illimitata.

Venerdì 27 agosto 2004, kusen delle 11:30

In zazen non perdete tempo a ruminare i vostri pensieri, in zazen torniamo a ciò che siamo in realtà, diventiamo questo corpo seduto nella postura di zazen, questo corpo che diventa completamente unità quando inspiriamo, questo corpo che espira completamente nell’espirazione. Questo corpo non è nemmeno il mio corpo e non sono io che respiro. Questo corpo appartiene all’ordine cosmico, a tutto l’universo e la respirazione si produce: questo respira al di là di me stesso. Se rimaniamo intimi con questa respirazione, allora possiamo sperimentare direttamente al di là del nostro ego, al di là di tutte le nostre fabbricazioni mentali, al di là di tutte le idee su di noi, a causa dei nostri vecchi condizionamenti. Praticare zazen significa contattare direttamente la realtà del qui ed ora con un occhio nuovo.

Praticare in questo modo significa ritornare istante dopo istante in quell’ambito dell’esistenza precedente ai nostri pensieri. Issan aveva chiesto a Kyogen: “Senza riferirti ai sûtra, mostrami il tuo vero viso prima della nascita dei tuoi genitori.” Qui ed ora, qual è il nostro vero viso prima delle nascita dei nostri pensieri? Nessuna parola può descriverlo. Possiamo farne l’esperienza quando lasciamo cadere lo spirito che si attacca alle parole, quando si rimane completamente attenti, prima che la nostra attenzione sia distratta dai pensieri. Wanshi chiamava questa realtà il campo, l’ambito del vuoto vasto e luminoso. Questo significa che nulla può delimitarlo, oscurarlo. E aggiungeva: “Coloro che praticano sinceramente ne fanno l’esperienza autentica e hanno anche fede nel fatto che questo è sempre stato con essi.”

Buddha e tutti i demoni non possono annientare questo, l’inquinamento non può avvelenarlo, non è possibile afferrare la sua forma e ne siamo sempre al centro. Concentrarsi realmente significa ritornare al centro della nostra realtà, al di là di tutti i concetti relativi al Buddha, al di là dei nostri demoni e dei nostri bonno, al di là di tutto ciò che separa, che è limitato. Praticare una sesshin significa ritornare a questo, a ciò che fonda tutta la nostra esistenza e che avevamo perso di vista a causa dei nostri pensieri complicati e dei nostri attaccamenti.

Il Sangha è la comunità di coloro che si armonizzano nella pratica, che si incoraggiano nel far maturare questa esperienza di ritorno a ciò che siamo in realtà, vivendo tutti gli aspetti della vita quotidiana a partire da questo, conducendo una vita senza separazioni, senza opposizioni rispetto agli altri, aiutandoli e rispettandoli come se stessi, senza creare separazioni tra la pratica nel dojo e le attività quotidiane, come la toilette, i pasti, il samu. Ogni volta è l’occasione di tornare al centro, di smettere di divagare. Potremo così realizzare l’autentica felicità conducendo una vita armoniosa, fedele a ciò che siamo. E’ la pratica della fede, la fede che si attualizza.

Venerdì 27 agosto 2004, kusen delle 16:30

Quando si continua a praticare a lungo come durante una sesshin si possono veder sorgere nel nostro spirito ogni sorta di mondi, ogni sorta di fenomeni. I pensieri, i ricordi, le immagini, a volte i desideri, le emozioni… tutto ciò appare giusto qui ed ora. Come nota Wanshi, i tre tempi, passato, presente e futuro sono aboliti. Anche se i ricordi del passato si presentano, possiamo vedere che siamo noi a ricostruire questi ricordi qui ed ora. Anche se si manifestano dei progetti, dei pensieri, dei desideri riguardanti l’avvenire, è il nostro spirito del qui ed ora che li progetta. Quando si comprende questo allora ci si attacca molto meno al passato o al futuro. Tutto proviene dal nostro spirito del qui ed ora. Se questo spirito è in pace tutto diventa tranquillo e questa pace si approfondisce quando vediamo chiaramente che tutti i conflitti sorti nel nostro spirito sono senza sostanza.

E’ così che nel corso della sesshin, progressivamente, si esauriscono tutti i fenomeni illusori che abitualmente ci assillano. Wanshi nota: “Ciò che non si esaurisce è lo spirito profondo, lo spirito che non è preoccupato dalla nascita e dalla morte, lo spirito che non dimora su nulla.” Quando questo spirito ci anima allora possiamo lasciar passare tutto ciò da cui dipendiamo abitualmente, tutto ciò che ci fa soffrire e ci condiziona.

Alcuni sperano a volte che praticando una sesshin tutti i pensieri scompariranno. Sono dispiaciuti nel vedere che continuano a manifestarsi e hanno l’impressione di fare un cattivo zazen. Il fatto che i pensieri sorgano non ha importanza, ciò che conta è l’atteggiamento del nostro spirito nei confronti di questi pensieri, di questi fenomeni. Se ne vediamo immediatamente la vanità, la vacuità, allora non ci disturbano più. Diventano come la scatola e il suo coperchio, fenomeni e vacuità si armonizzano costantemente al di là di noi stessi. Non è necessario fare uno sforzo speciale. Zazen diventa come un gioco e come diceva il Maestro Yoka, possiamo giocare insieme nel samadhi accettando la realtà così com’è, senza attaccarci ai fenomeni e senza ristagnare nella vacuità.

Venerdì 27 agosto 2004, mondo delle 16:30

- Tutti conoscono il principio della postura di zazen che potrebbe essere definita la postura dell’albero. Si sente spesso consigliare di spingere, di tendere la colonna, di spingere verso il cielo, di spingere verso terra con le ginocchia. C’è però un aspetto di distensione che deve conciliarsi con la spinta. E’ contraddittorio…bisogna al tempo stesso rilassare e spingere. Come si può spiegare questa cosa?

- Innanzi tutto occorre fare attenzione al vocabolario perché quando si dice di tendere le reni la maggior parte delle persone reagiscono tendendo con molta forza, diventando tese e rigide, mentre il Maestro Deshimaru diceva in inglese: ‘stretch the backbone’. Stretch non significa tendere, ma piuttosto estendere. Faceva spesso l’esempio di un filo di ferro storto che si prende per le due estremità e che si estende. Perde così tutte le sue torsioni, che sono legate alle contratture. La schiena è contratta a causa dello stress della vita quotidiana, vi si imprime tutto ciò che crediamo di dover sopportare e spesso è tesa a causa di una serie di contrazioni dei muscoli vicini alla colonna vertebrale e in zazen è proprio estendendo che alleviamo le contrazioni, faccio spesso l’esempio del filo che usano i danzatori. Immaginate un filo che vi tira attraverso la sommità del capo, è solo un filo, non è qualcosa che agisce brutalmente, ma vi tira dolcemente e a quel punto c’è un’estensione. Questa estensione può essere fatta solo abbandonando le contrazioni ed è ciò che cerco di insegnare. Penso di averlo ripetuto nel corso di questa sessione, questa volta non ho utilizzato l’immagine del filo, ma credo comunque che non si debba usare troppa forza volontaristica nella postura. E’ altrettanto importante rimanere costantemente in contatto con la respirazione che conferisce fluidità alla pratica di zazen. Se si è troppo tesi non si respira correttamente, il diaframma si blocca, in particolare se le reni sono troppo inclinate. L’osservazione della respirazione è il barometro dell’equilibrio della nostra pratica, non solo per quanto riguarda il corpo, perché se ci si attacca a un pensiero ossessionante l’espirazione si blocca e quasi tratteniamo il soffio, come per volerci agganciare meglio a quel pensiero. Se invece espiriamo lungamente, senza forzare troppo, ma lasciando che l’espirazione si faccia profondamente, allora non solo il corpo, ma anche lo spirito si distende, ed è un processo interdipendente.

- Non percepisco il fatto di basculare come un’inclinazione, ma piuttosto come un’estensione e un avvolgimento.

- Sì… ma forse pratichi un po’ troppo il metodo Mézière. Secondo il metodo Mézière in kinesiterapia si consiglia, se questa è la testa e questa la schiena, di rilasciare e di inclinare il bacino in avanti, ma non si tratta di zazen, non bisogna ingannarsi su questo punto. Sensei era molto chiaro, diceva: “Dovete essere seduti in zazen come se voleste che l’ano guardasse verso il sole.” Ecco, prova !

- E dove poni il sole ?

- E’ sempre in alto !Anche se è all’orizzonte, anche se sorge il mattino. In ogni caso questo vuole dire che l’ano non deve premere sullo zafu in zazen. Deve esserci uno scollamento che non può prodursi se si è così, se non c’è una curvatura, che però non deve essere esagerata. Non è perché alcuni esagerano la curvatura che non si deve curvare.

- Non so. Su questo punto non sono in accordo con te.

- Lo so, è molto tempo che ne parliamo, ma io trasmetto ciò che insegnava il Maestro Deshimaru e che io stesso sperimento come giusto. Se tu senti le cose in modo diverso è un tuo problema ma…

- Non sono io che sento, è il mio corpo…

- Sì, il tuo corpo… Fai come vuoi, ma quando si trasmette, quando si insegna la postura ritengo lo si debba fare come insegnava il Maestro Deshimaru. Se si osserva che le persone sono troppo tese, o hanno problemi, allora si deve fare attenzione e consigliare loro di rilassarsi e di non esagerare.

- Hai detto che Sensei parlava inglese, io dico piuttosto che parlava lo zenglish. Non parlava né inglese, né francese, parlava una sua lingua personale e penso che non si sia approfondito a sufficienza cosa voleva dire, profondamente…

- Sì, ma non ci sono solo le parole. Vedevamo la sua postura, vedevamo le sue dimostrazioni di zazen. Ricordo di averlo spesso accompagnato nei suoi insegnamenti ai principianti, sono rimasti dei film, non si deve fare altro che vedere come insegnava la postura di zazen ai monaci trappisti di Bellefontaine. Era molto chiaro il modo in cui curvava le reni, inclinava il bacino in avanti, non ci sono dubbi su questo punto, ma sono d’accordo sul fatto che non si debba esagerare. Ognuno deve sentire e fare nel modo giusto. Il criterio di base è che il diaframma resti rilassato, che l’espirazione possa scendere sino in fondo. Se si blocca c’è qualcosa di sbagliato, significa che ci si sta sbagliando. E’ tutto. OK ?

* * * * * * * * * *

- Ho qualche piccola domanda circa il Daïshin Dhâranî. E’ di derivazione induista, mentre il Kannon Gyô è piuttosto di derivazione cinese ? Si discosta un po’ dalla filosofia zen perché ci sono immagini di animali selvaggi e si invoca Indra. Potresti spiegarmi il collo blu di Avalokiteshvara o la testa di cinghiale…

- Si tratta del tentativo di traduzione di qualcosa che è intraducibile, dal momento che nei Dhâranî non è il senso …In genere non si traducono i Dhâranî , non dovrebbero tradursi, ciò che conta è l’energia che viene liberata quando si cantano nel modo giusto. E’ la vibrazione del Dhâranî. Allora, certo, il Daïshin Dhâranî è un Dhâranî, è una formula, una recitazione che ha lo scopo di aiutare gli esseri che soffrono profondamente. In questo senso è legato al canale dell’energia, ma nel momento in cui lo si canta, bisogna entrare completamente nel canto. Le storie legate al collo blu non hanno alcuna rilevanza, mentre l’Hannya Shingyô ha un senso che può essere tradotto e commentato parola per parola. Per questo motivo alcuni non amano i Dhâranî, ma credo sia importante proprio concentrarsi su qualcosa che ci mette in contatto con ciò che è al di là di ogni significato, qualcosa che non si può spiegare. In fondo, non possiamo spiegare nemmeno la stessa realtà, almeno profondamente. In questo senso il Dhâranî si collega alla realtà così com’è, intesa come qualcosa che esiste, ma che si manifesta al di là di ciò che il mentale può afferrare. E quando lo si canta avviene proprio questo, il mentale è obbligato ad abbandonare la presa, perché anche se si pensa al collo blu e a tutti i possibili significati ai quali si cerca di attaccarsi, in fondo non vuole dire niente! Ed è bene che sia così, è una buona pratica. Certo non dobbiamo passare il tempo a recitare i Dhâranî, ma a volte è bene farlo, al di là del senso. In ogni caso il Daïshin Dhâranî, così come il Kannon Gyô, sono entrambi di origine indiana. Il Kannon Gyô è stato tradotto in cinese. Ne esiste una versione cinese e una in sanscrito. Deriva dal Sûtra del Loto che è scritto in sanscrito. C’è una versione cinese, ed è per questo che a volte i cinesi hanno mantenuto delle sillabe o delle parole in sanscrito, in particolare nei Dhâranî, ma principalmente per il loro valore fonetico, per la forza che conferiscono al canto, più che per il loro significato.

* * * * * * * * * *

- Vorrei chiederti perché ci parli molto… ( ?) La mia domanda riguarda le emozioni. Perché quando siamo in zazen è possibile osservare bene come sorgono se si è davvero concentrati ( ?) A mio parere questo spirito di profonda concentrazione è completamente svuotato di emozioni, non sento nulla. (?) Dal momento che sono un artista le emozioni sono per me fonte di creatività e mi chiedo…ho difficoltà a capire da dove vengono…Quando ci si alza a volte si è allegri, a volte si è tristi…a volte i pensieri influenzano le emozioni, a volte le emozioni…(n.d.t. la versione francese di questa domanda presenta molte lacune, si è deciso di evidenziarle come nella versione francese con un punto interrogativo posto tra parentesi)

- Che cosa ?

- Delle emozioni che… Dopo si pensa all’interno di queste emozioni, si è allegri, si hanno pensieri allegri, si è tristi…

- Ah ! Questo crea dei pensieri?

- Ecco !

- Sì, ma allora ? Qual è la tua domanda ?

- Mi piacerebbe comprendere meglio il meccanismo di questi pensieri.

- Sì, vuoi un corso di psicologia ! Sarebbe troppo lungo.

- Non mi sbaglio quando dico che questa osservazione, in zazen, è vuota di emozioni ?

- Certo. L’atteggiamento giusto nella pratica di zazen consiste nell’osservare ogni cosa, come hai ricordato prima, senza amore e senza odio, né scelta né rifiuto. Questo è l’atteggiamento di base e si applica a tutto ciò che appare in zazen, cioè ai cinque aggregati, al nostro corpo, ai nostri pensieri, a tutti i processi mentali, comprese le emozioni. Questo significa che se sorge un’emozione legata alla gioia non ci si attacca in modo particolare ad essa, non si cerca di trattenerla e se nasce un’emozione legata alla tristezza…a volte certe persone piangono durante zazen, senza sapere perché, sono all’interno di un’emozione triste. Allora, anche se questa emozione ci pare sgradevole, non cerchiamo di evitarla o di respingerla, semplicemente accettiamo ciò che è là senza attaccamento e senza rifiuto. Non aggiungiamo cioè emozioni alle emozioni ed è questo che consente allo spirito di ritrovare rapidamente una condizione più normale di calma, senza troppe emozioni. C’è una sorta di abbassamento di tutte le tensioni emozionali. E’ per questo che di solito, alla fine di una sesshin, tutti hanno lo spirito molto calmo, tranquillo. A volte alcuni hanno paura di perdere le loro emozioni, un po’ come te che dici: “Se non ho più emozioni forse non sarò più ispirato come artista.” Credono che l’emozione sia assolutamente necessaria per agire o per essere ispirati, ma non è sempre il caso e comunque la pratica di zazen non distrugge le emozioni ma, come ho appena detto ora e precedentemente nel kusen, cambia il nostro atteggiamento nei confronti delle emozioni. Ad esempio, anche se si osserva la vacuità di tutto ciò che sorge, che è l’insegnamento profondo di Dôgen nel Genjo Kôan, questo non ci impedisce di avere dei rimpianti nel vedere i fiori appassire, o gli amici morire, o la morte giungere. Era il caso di Dôgen quando, malato, scrisse il poema Mujo , nel quale guarda la luna e dice, non ricordo più esattamente: “La luna d’autunno è bella questa sera, ma perché mi impedisce di dormire?”semplicemente perché non rivedrà più la luna autunnale, lo sa, perché è malato e in quel momento è triste, si sente nel poema, nello stesso modo in cui nel Genjo Kôan riconosce che i fiori cadono con il nostro dispiacere anche se si sa che è normale, che la condizione normale è l’impermanenza. Ma anche questa emozione è Genjo Kôan, anch’essa è la manifestazione della realtà ultima. Se vediamo le cose in questo modo possiamo continuare a provare emozioni senza drammatizzarle. E la vita continua ! Non diventiamo dei cadaveri perché facciamo zazen, continuiamo a vivere, dunque a provare desideri ed emozioni, ma non ne siamo più diretti, condizionati. Non è perché a un certo punto proviamo una certa tristezza che essa cambierà completamente la nostra azione. E non è nemmeno perché proviamo una forte collera che diventiamo violenti. E’ importante accogliere la collera quando si presenta, senza cercare a tutti i costi di reprimerla, senza seguirla. Essa diventa kôan. Che cos’è ? Ci si può risvegliare a partire da una emozione.

- E si parla spesso di compassione, di praticare la compassione, ma per me si tratta di un’azione più che di un’emozione.

- Nella compassione c’è sempre una componente emozionale. L’emozione è la pietà. Occorre sentire pietà per un essere sensibile che soffre. Se non siamo colpiti in alcun modo sarà difficile passare alla tappa successiva, che consiste nel chiedersi che cosa si può fare per aiutare, alleviare questa sofferenza. D’altra parte, se siamo sommersi da un’emozione di pietà, l’unica cosa che riusciamo a fare è piangere insieme, senza però riuscire a creare la saggezza, perché lo spirito non è chiaro, si è preda dell’emozione e non si è in grado di trovare la parola giusta o l’azione giusta per aiutare in quel momento. Occorre mantenere la capacità di accogliere le emozioni, ma al tempo stesso coltivare la capacità di lasciarle passare rapidamente, non lasciarsi bloccare nell’emozione.

Sabato 28 agosto 2004, kusen delle 6:30

Non dormite, non lasciate che il vostro spirito sfugga dalla pratica di zazen, riportate tutta la vostra attenzione alla postura, non lasciate che si rilasci. A partire dalla vita estendete la colonna vertebrale e la nuca. Spingete il cielo con la sommità del capo. Rientrate il mento e rilassate le spalle. Rilassate il ventre e concentratevi sull’espirazione. Non siate solo attenti alla postura e alla respirazione, poiché quando si è attenti a qualcosa, c’è ancora una separazione, mettete tutta la vostra energia nella postura. Abbandonate tutte le vostre preoccupazioni, tutti i pensieri, in modo tale che rimangano solo un corpo e uno spirito seduti in zazen, abbandonati a zazen, spogliati da zazen. A quel punto non c’è più la minima distanza tra zazen e voi, non praticate zazen, siete zazen. Siete Buddha seduto in zazen al di là di ogni pensiero. Praticare una sesshin significa ritrovare l’intimità con se stessi, con la pratica, con lo spirito del Buddha. Ritrovare l’unità con l’essenza della nostra vita, questa è la pratica della Via. Ma questa unità, come osserva il Maestro Wanshi, non può assolutamente essere appresa. Possiamo certo affermare il principio della non-dualità, I shi nyo, corpo e spirito sono unità, pratica e risveglio sono unità, sé e Buddha sono unità, sé e tutti gli esseri, tutte le esistenze sono unità. E realizzarla, al di là del pensiero, perché questo può realizzarsi solo abbandonando lo spirito che crea separazioni (cercate di non tossire, per favore). Questo abbandono non può essere deciso coscientemente, volontariamente, possiamo solo creare le condizioni che consentono la sua realizzazione. Nessuno può realizzarlo al nostro posto e nessuna spiegazione può condurre ad esso. Si possono lasciar cadere gli ostacoli che impediscono la sua realizzazione. E’ il limite dell’insegnamento. Il Maestro Wanshi aggiungeva che la cosa essenziale consiste nel vuotare completamente, aprendo corpo e spirito, che sono vasti quanto la vacuità illimitata dello spazio. Vuotate, lasciate cadere tutto ciò che è zenna, impurità, manifestazioni dell’ego nella pratica. Aprire significa abbandonare ogni paura, non temere più di incontrare la realtà così com’è, smettere di rifugiarsi nelle proprie costruzioni mentali, nel nostro piccolo mondo limitato. Allora, aggiunge Wanshi, in tutto il territorio tutto è soddisfatto, in tutti gli ambiti della nostra vita la nostra aspirazione più profonda è soddisfatta. Ritrovare questa vita senza separazioni, al di là dell’eccesso e della mancanza. Allora tutti i nostri piccoli desideri, le frustrazioni, sono trascinate via dalla corrente. In questo spirito senza separazioni non vi è più ostacolo e confusione, l’essenza ed i fenomeni della nostra vita si armonizzano naturalmente. La luna, dice Wanshi, accompagna il corso dell’acqua e la pioggia insegue le nuvole trascinate dal vento.

Sabato 28 agosto 2004, kusen delle 11:00

Evitate di tossire, continuate a concentrarvi sulla postura, non solo con la vostra attenzione, ma mettendo tutta la vostra energia. Questo significa permettere alla Via di attualizzarsi, dando senza riserve, poiché non c’è nulla di più importante della pratica di questo istante. Quando si pratica in questo modo lo spirito diventa forte, non è più scosso dai fenomeni che sorgono. E anche se non perseguiamo più nulla, non ci addormentiamo. Molte persone rimangono sveglie solo per rincorrere i loro piccoli desideri, se non c’è più nulla da afferrare si addormentano. Nella via dello Zen ci si può risvegliare solo a partire dal momento in cui si rinuncia ad afferrare alcunché, al di là di ogni oggetto. E la pratica vuotata di ogni oggetto, invece di affondare nel torpore, fa sì che la sonnolenza diventi assolutamente intensa, perché nulla viene più a perturbare la presenza dello spirito.

Wanshi diceva: “Non lasciatevi andare ad interferire con gli oggetti, con le cose.” Allora, certamente, nulla interferirà con voi. Ieri qualcuno ha fatto una domanda a proposito della natura, dell’origine delle emozioni. Certo, esistono molti tipi di emozioni, dalle più brutali alle più sottili, ma, in generale, esse sorgono perché il nostro ego è disturbato, perché la nostra avidità non può essere soddisfatta, perché non possiamo trattenere ciò che amiamo, perché dobbiamo accettare di perdere ciò a cui eravamo attaccati, perché dobbiamo sopportare ciò che non amiamo. Allora sorgono ogni tipo di emozioni, la collera, la gelosia, l’invidia, la nostalgia, il rimpianto. Ognuna di queste emozioni può essere vista come un kôan, ci indica il punto in cui non siamo più in armonia con l’ordine cosmico. Talvolta si presentano emozioni molto positive, ad esempio quando proviamo gioia di fronte alla felicità degli altri, quando una bella musica o un paesaggio ci commuovono. Ci situiamo al di là dell’avidità, dell’odio, dell’ignoranza, al di là dei tre veleni. E’ ciò che si produce quando si smette di volere interferire con le cose. Quando il guscio, proprio come un guscio d’uovo del nostro ego si frantuma, percepiamo improvvisamente la realtà con un occhio nuovo, ma solo quando la nostra unità con tutti gli esseri, con tutto l’universo si realizza veramente, è realmente vissuta, non solo immaginata o pensata. Wanshi diceva ancora: “Corpo e spirito sono unità nell’essere così, in immo.” E fuori da questo corpo non vi è nulla, cioè questo corpo diventa tutto l’universo, ingloba ogni cosa, senza che la pelle formi più separazioni. Non si tratta di un fenomeno psicologico bizzarro di fusione, ma è semplicemente il comunicare all’interno della stessa realtà che sostiene tutti gli esseri, che li fonda. Per questo motivo è detto che il saggio non ha ego, non vi è nulla che non sia lui stesso. Realizzare tutto ciò intimamente è come essere il bue bianco nel campo, la prateria aperta, senza recinzioni, significa diventare intimi con il nostro autentico sé che non ha bisogno di disciplina, di limiti, di chiusure e nemmeno dei precetti per armonizzarsi con l’ordine cosmico. Significa vivere veramente in armonia con zazen, fare della nostra vita il suo prolungamento.

Sabato 28 agosto 2004, mondo delle 16:30

- Negli ultimi dieci giorni ho fatto spesso gasshô per ricevere il kyosaku e ho l’impressione che i colpi di kyosaku siano molto deboli per me. Ho anche la sensazione che siano così deboli perché sono una donna, ma non so se si tratta solo di una mia impressione. La mia domanda riguarda la mia impressione che spesso se qualcuno è forte considererà che l’altro è forse debole e questo fatto ha come conseguenza che ci si orienti sempre verso i deboli, senza darlo abbastanza forte alle persone che sono forti.

- Non si vede questo guardando la tua postura, non si vede dalla forma del tuo corpo che sei forte. I kyosakuman devono dare il kyosaku in funzione dell’anatomia delle persone. Se qualcuno ha le spalle larghe è forte, ma per quanto riguarda le donne che hanno una muscolatura meno sviluppata, è normale che lo si dia più piano. A volte questa regola non viene rispettata, ad esempio questa mattina la mia segretaria ha ricevuto un colpo di kyosaku per il quale non era annoiata, ma completamente scioccata. In genere il kyosakuman deve sentire, deve avere l’intuizione della forza che deve imprimere al kyosaku, ma per quello che ti riguarda è anche importante che tu accolga ciò che ti è donato così com’è. Si riceve il kyosaku, che sia forte, che sia debole, non si deve giudicare. Il senso del kyosaku è proprio di centrarci nuovamente nella pratica di zazen e lo spirito di zazen non giudica: forte, debole, buono cattivo, maschile, femminile… “Ah, sicuramente pensa che sia una debole donna, non è giusto e glielo mostrerò!” Con tutto un discorso femminista sottinteso. E’ proprio questo che lasciamo cadere in zazen. Ecco, detto questo ora lo shusso ha scoperto…? (risate)

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-Ieri ho assistito alla cerimonia del kito e vorrei sapere qualcosa di più sulle sue finalità e sulla sua efficacia. Preciso che dall’esterno potrebbe sembrare qualcosa di un po’ superstizioso.

- In ogni caso un po’ magico. La finalità è molto chiara, si tratta di aiutare persone che non sono più in grado di aiutare se stesse perché troppo malate. Facendo un kito speriamo di comunicare una parte dell’energia dello zazen che pratichiamo. Il tipo di funzionamento appartiene davvero all’ordine del mondo invisibile, delle cose impalpabili, si possono azzardare teorie, ma in ogni caso non c’è una spiegazione. Quello che è strano è che funziona più spesso di quanto non si creda, le persone improvvisamente migliorano e se prima c’è stato un kito si dice che è grazie ad esso. Esiste una frequenza di miglioramento, ne ho dedotto, perché ho fatto kito anche prima di crederci e anche quelli che ho fatto senza esserne del tutto convinto hanno dato ottimi risultati. Mi sono detto che c’è qualcosa che è al di là di me, anche al di là della mia volontà di aiutare e che permane qualcosa dell’energia di zazen quando si fa un kito. Si evoca anche Maka hannya, la Grande Saggezza, e credo si debba credere che esista una dimensione del mondo invisibile, l’inverso del mondo dei fenomeni che possiamo misurare, controllare. Possono accadere cose che vanno al di là del nostro controllo, di quanto il nostro spirito e la nostra ragione attuale possono spiegare. In ogni caso ho rinunciato a spiegarlo, lo faccio per compassione verso le persone che me lo chiedono e ho notato che sortisce degli effetti. Anche se non guarisce chi ad esempio è nella fase terminale di un cancro, molto spesso sento dire che dopo il kito la persona è stata molto meglio, anche se non è guarita del tutto.

E’ un altro modo di aiutare. Certo il kito non rappresenta la cosa più importante dello Zen, non appartiene nemmeno allo Zen. Quando si pratica zazen, non si pratica con una intenzione particolare e non si è certamente adepti della magia. Il kito trae la sua origine dal Buddhismo esoterico Shingon, Buddhismo tantrico giapponese. Nel XIV secolo, quando questa forma declinava in Giappone, i monaci zen l’hanno fatta propria. Sono stati invitati ad abitare questi templi Shingon che avevano i loro discepoli, i loro fedeli, persone che contavano sui monaci per fare dei kito. I monaci zen hanno continuato a farli e noi facciamo lo stesso.

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- Vorrei parlarti della mia esperienza di lunghi zazen.

-Sì, ma allora fai presto.

- In sesshin ho l’impressione che il dolore diventi un’ossessione. Nel giro di un’ora e mezza la priorità diventa evitare il dolore.

- La tua priorità.

- Questa mattina hai detto che non bisogna solamente essere attenti e donare alla postura. A un certo punto il dolore è tale che non si può più donare nulla alla postura, si cerca solo di evitare il male, adottando una postura di compromesso, rilassata al massimo, pur avendo l’aria di essere dritti. Ho l’impressione che si sia portati dalla necessità a tenere fisicamente, senza più osservarsi.

- In ogni caso tutto questo non ti ha impedito di osservare molto bene.

- Ma tutto questo è un lavoro che posso fare anche dopo.

- Esistono effetti che vengono dopo. Quello che non hai cercato di fare è di assumere in quel momento una postura ancora più forte. Prova per vedere, solo per vedere. Sei d’accordo? Quello che fai è normale, tutti lo fanno. Puoi anche fare gasshô, sciogliere l’incrocio delle gambe, riposarti un po’ e riprendere la postura. E’ assolutamente possibile. Zazen non deve diventare una mortificazione, siamo tutti d’accordo su questo punto, proprio perché il dolore non diventi un’ossessione. Questo è il modo normale di considerare il problema. Vi è un modo ancora più profondo che consiste nel dare quando non si può più donare. Funziona. Dovresti provare.

- Ad andare al di là ?

- Sì, perché dici che sei unicamente ossessionato ad evitare il dolore. Ma la cosa migliore, più di cercare di evitarlo, consiste nell’accettarlo. Non c’è più un ego che combatte contro il dolore o che lo fugge.

- E’ ciò che faccio, ma mi sembra che, a un certo punto, cerco di minimizzare il dolore per evitare di sciogliere l’incrocio e abbandonare la postura, per non esplodere.

- Sì, vuoi dire semplicemente sciogliere l’incrocio.

- Sì e mettersi sullo zafu con le gambe rilassate..

- E’ bene minimizzare perché la scala della sopportazione del dolore è molto relativa. Si può sempre modificare questa scala, dipende da noi. In ogni caso è importante apprendere a minimizzare, togliere drammaticità al dolore. Il Maestro Deshimaru insisteva molto su questo punto, dicendo che si tratta di uno degli apporti essenziali dell’insegnamento di zazen in rapporto alla sofferenza, appunto togliere drammaticità al dolore in modo che non diventi una sofferenza. E’ un punto importante non solo per attraversare i momenti difficili delle sesshin, anche perché nella stessa vita quotidiana incontriamo spesso momenti simili, nei quali il dolore non necessariamente è fisico, può trattarsi anche di un dolore psicologico. Se, attraverso l’esperienza delle sesshin, si è appreso a sdrammatizzare, a relativizzare cercando di andare più verso l’accettazione che verso l’opposizione, allora è possibile trovare la maniera di attraversare le difficoltà in modo più flessibile. E’ la pratica della Via. Ancora una volta è la pratica in rapporto a quanto ci succede, la Via non ci permette di cambiare quanto ci capita, un giorno ci ammaleremo, invecchieremo, moriremo e non potremo cambiare nulla. La Via ci insegna però a far fronte a queste circostanze in modo differente, è questa la pratica! L’esperienza che vivete in sesshin, anche se è dolorosa, anzi, proprio quando è dolorosa, può essere sempre più profonda. D’accordo ?

- Allora tu dici che i fenomeni non hanno sostanza, che non vi è nulla, pensieri, ricordi, tutto questo…Poi penso al maestro Dôgen quando diceva che chi aspira a comprendere lo Zen non deve aspettarsi nulla di facile. Alla fine non possiamo afferrare nulla, cosa resta da capire?

- Proprio questo.

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- Credo che questa mattina tu abbia detto che la vera, profonda dimensione di zazen si attua quando non è più l’ego a praticare zazen, ma quando è zazen che si realizza da sé. Vorrei sapere se questo tipo di zazen è quello che si può definire il risveglio, il satori. Questo significa anche che l’ego, in quanto tale, per la dimensione che gli è propria, è incapace di realizzare il risveglio ?

- La sola maniera di realizzare il risveglio per quanto riguarda l’ego è di abbandonarsi. Del resto è vero che, finché l’ego, la volontà, il pensiero cosciente vogliono afferrare il risveglio, il satori, questo non è possibile, proprio perché l’atteggiamento che porta a voler afferrare, possedere qualcosa, conduce alla direzione opposta. Si tratta sempre dell’inseguimento dell’avidità, dell’ego che vuole ottenere qualcosa di spirituale. E’ cambiato semplicemente l’oggetto del desiderio, ma non il funzionamento dello spirito. Alcuni desiderano fare un buon pasto e tutti sono d’accordo nel dire che si tratta di una dimensione ordinaria, altri desiderano onori, successo, ma ci sono persone che incontrando una via spirituale, invece di abbandonare i loro desideri, non fanno altro che affinarli, ma nulla è cambiato. Per questo motivo occorre fare una rivoluzione completa, e non si può ottenere nulla solo volendolo, decidendolo, non si può dire a un certo punto che si vuole abbandonare l’ego, che si vuole abbandonare la presa, non è possibile. La sola cosa che si può fare è donare tutta la propria energia, tutta la propria attenzione, tutto ciò che si è capaci di donare a zazen, in modo da farlo diventare il polo che traina tutto il resto, allora si deve solo seguirlo. Il limite del potere dell’ego sta proprio nel comprendere che non si può andare oltre attraverso di lui e quindi è importante donare alla Via in modo che essa diventi più forte dell’ego, è la pratica di gyoji.

Svegliarsi presto al mattino per venire a fare zazen, andare al samu, anche quando si è stanchi, continuare tutti i giorni. Occorre avere un ego forte per agire in questo modo, avere una volontà e una forte intenzione. Più si pratica in questo modo e meno è necessaria la volontà, è la pratica che passa in primo piano, che ci trascina e la seguiamo senza pensarci. Questo è l’essenziale della nostra pratica, vi invito ad avere fiducia in questo. Per avere fiducia senza che diventi una fede cieca occorre sperimentare, provare. Molte persone non osano, hanno sempre paura di perdere qualcosa, è questo che è difficile per quanto riguarda la Via, questa paura di perdere. Provate, perché in ogni caso, se non provate, il rischio di perdere è ancora maggiore, significherebbe passare accanto all’essenziale della vita.

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- Il Buddha Shakyamuni ha esitato a lungo ad accogliere le donne e anche dopo le regole da rispettare erano più numerose per le donne che per gli uomini. Mi sapresti spiegare perché ?

- Penso sia dovuto alla società dell’epoca. In occidente era la stessa cosa. Gli uomini che sceglievano una via spirituale hanno spesso avuto l’impressione che le donne costituissero un ostacolo. E’ una vecchia storia. In realtà non sono le donne ad essere un ostacolo, ma il loro desiderio. Nell’immaginario maschile le donne sono sempre state viste come tentatrici, coloro che rischiavano di far deviare dalla Via. Questa convinzione era molto forte in una società come quella indiana del quinto secolo avanti Cristo, ma è ancora più considerevole il fatto che il Buddha ha superato questa resistenza sociale, è stato il primo a dare alle donne la possibilità di praticare la Via, praticamente allo stesso livello degli uomini. Ha aggiunto qualche regola supplementare, di ordine pratico, ma non era così drammatico, tenendo conto del fatto che in quell’epoca si trattava di un’autentica rivoluzione.

Quello che conta è osservare quanto avviene ora e anche se ci sono differenze tra uomini e donne, penso che le donne abbiano altrettante possibilità di praticare degli uomini. Salvo casi individuali, nei quali l’uomo non vuole rispettare il suo turno nel tenere i bambini e la donna crede di essere obbligata ad accettare. Nel nostro modo di praticare nel Sangha attuale, non esistono regole speciali per le donne, non esistono proibizioni nei loro confronti, salvo forse nei casi in cui alcune donne percepiscono trattamenti ineguali, ma in questo caso occorre segnalarlo, perché non si tratta di un comportamento conscio. Ma può capitare, inconsciamente. In ogni caso non esiste una regola speciale né alcun tipo di restrizione alla pratica delle donne. Ma è ora che bisogna vedere cosa succederà, se studiate la storia vedrete che non sempre è stato così, ma per quei casi occorre studiare il contesto sociale, dal momento che il Sangha non agisce in un mondo separato, ma all’interno di una società che ha i suoi valori e anche i suoi pregiudizi. Credo che il Sangha del Buddha fosse il più egualitario tra le varie comunità religiose. Se considerate la Chiesa cattolica vedrete che anche oggi le donne non hanno il diritto di diventare preti, almeno nella chiesa cattolica romana. Questo solo per citare un caso, cosa che non avviene nello Zen. Va bene ?

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- Dai tempi in cui Bodhidharma entrava nel nirvâna ad oggi, esiste sempre la stessa Via ?Oppure è cambiata col tempo?

- Vuoi dire la Via dello Zen ? Se la Via è cambiata?

- Sì, tra i maestri antichi e quelli di ora. Esiste sempre la stessa Via?

- Per chi?

- Per i maestri ?

- Essenzialmente la Via non cambia, ma sono cambiate le condizioni. E’ vero che non si pratica più in una grotta come Bodhidharma a Shaolin. Ma l’essenza dell’esperienza di Bodhidharma è esattamente ciò che pratichiamo oggi. Non solo a partire da Bodhidharma, ma dal Buddha stesso. Non vi è nulla di cambiato. La pratica di zazen è ciò che ci mette in contatto con ciò che è al di là delle forme esteriori, della cultura indiana, cinese, giapponese, occidentale.

Le forme esteriori possono essere differenti e allora si ha l’impressione che la Via cambi, perché non si pratica nello stesso contesto, ma quando Bodhidharma è seduto in zazen o Shakyamuni sotto l’albero della Bodhi o te nel dojo, si tratta della stessa pratica e della stessa possibilità di sperimentare. Può cambiare la profondità dell’impegno e l’energia che ognuno conferisce alla pratica. E’ vero che quando si studia la vita e la pratica degli antichi maestri si ha davvero l’impressione di essere formiche accanto a un elefante. Ma questo non significa che non si possa avere la stessa pratica. Non penso che gli uomini siano veramente cambiati e neppure la pratica. Ciò che è cambiato è lo stato d’animo con il quale ci si impegna a seguire la Via. Oggi molti scelgono di praticare per avere qualcosa di più, non dico coloro che sono qui, ma spesso, dopo aver ottenuto un certo numero di riconoscimenti più o meno soddisfacenti, di successi più o meno felici, non sono soddisfatte della loro vita. Allora sperano che lo Zen dia loro qualcosa in più. Spesso ci si avvicina alla pratica con uno spirito di avidità, di consumo, col bisogno di ottenere qualcosa di più. Dal momento che si ottiene solo male alle ginocchia, a volte può essere deludente. Per gli uomini, gli esseri umani, Bodhidharma o Shakyamuni, che si sono impegnati nella pratica di zazen, si trattava veramente di una questione di vita o di morte. Per questo motivo Shakyamuni ha detto: “Mi siedo e non mi muoverò di qui finché non avrò realizzato il risveglio.” E tuttavia viveva terribili mortificazioni da cinque anni. Questo significa che in quel momento Shakyamuni donava tutto ciò che aveva e ancora di più per praticare. Evidentemente questo scatena qualcosa, che forse non si è capaci di realizzare allo stesso modo.

- Volevo proprio chiedere se sino ad oggi si tratta della stessa Via o….

- Bene, ci fermiamo qui.

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- Si dice che Shakyamuni si è risvegliato alla vacuità dei fenomeni e ho creduto di capire che con la parola vacuità tu sottintendessi l’ interdipendenza, la molteplicità delle cause. Vorrei sapere il senso di queste espressioni e il legame che questo ha con l’ordine cosmico.

- L’interdipendenza è proprio l’ordine cosmico. C’è un ordine cosmico proprio perché ci sono interdipendenze. Nulla esiste separatamente, tutte le esistenze sono collegate.

- Prenderne coscienza concretamente aiuta ad abbandonare la volontà personale, ad essere nel non-agire?

- Il non-agire non è lo Zen, ma significa smettere di agire a partire dalla stessa fonte, smettere di agire partendo dal proprio ego, agire giustamente tenendo conto di questa interdipendenza, quindi con maggiore attenzione e compassione nei confronti degli altri, dell’ambiente circostante. Parlavi anche di causalità. La vacuità significa anche che tutto esiste all’interno di un legame di causa ed effetto e dunque nulla possiede sostanza propria. E’ importante prendere coscienza di questo punto, in modo che i nostri atti non diventino cause di sofferenza. Si può essere attenti alla causalità per smontare il nostro ego, la nostra illusione, per chiedere a noi stessi: in definitiva, che cos’è questo? Null’altro che il risultato di un certo numero di cause e di effetti di una rete di interdipendenze. Questo consente di diminuire le pretese dell’ego nell’essere qualcosa che esiste in sé e per sé, direi che rappresenta la dimensione assoluta della saggezza alla quale ci si sforza di risvegliarsi. L’altra dimensione consiste nel ritornare tra i fenomeni a partire da questa presa di coscienza, agendo tenendo conto di tutte le interdipendenze e della causalità, in modo da agire in modo benefico. Il cammino del bodhisattvâ è questo, risvegliarsi alla vacuità e rientrare nei fenomeni, contribuendo ad aiutare le persone a risvegliarsi, a liberarsi.

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- Penso di aver già ricevuto la risposta, dato che la direzione è cambiata. Ieri hai parlato di qualcosa, forse il traduttore ha fatto un errore, di qualcosa che era “totalmente altro”..

- Mi sembra che la tua domanda non sia chiara. Cosa vuoi sapere?

- E’ vero che i fenomeni provengono (…) là dove tutto è differente ? In tedesco ho capito che i fenomeni provengono dall’emisfero di (…) dove tutto è differente…

- Non si trattava di emisfero.

- Il posto dove tutto è differente mi ricorda sempre Dio.

- In quel caso si trattava della vacuità, l’altro lato. Il lato dei fenomeni che si crede abbiano un’esistenza oggettiva e l’altro lato che rappresenta la realtà di quei fenomeni, che non ha sostanza. L’altro lato è la natura autentica del fenomeno. Non sono separati, sono insieme. Non esiste vacuità senza fenomeni, né fenomeni senza vacuità, ma in genere si vede un solo aspetto. E’ il motivo per cui ho invitato a vedere anche l’altro. I due elementi non sono mai separati.

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-La mia domanda si collega alla risposta che hai dato a Mireille. Ho capito che descrivevi lo spirito del bodhisattvâ e l’altro giorno mi hai ricordato un kôan nel quale è detto che lo spirito ordinario é Buddha. Io faccio una differenza tra lo spirito del bodhisattvâ e lo spirito ordinario e questo kôan mi pone un problema.

- Lo spirito del bodhisattvâ è diverso dallo spirito ordinario, se vediamo in quest’ultimo lo spirito avido ed egoistico. In questo senso lo spirito del bodhisattvâ è certo differente. “Lo spirito ordinario è la Via” indica lo spirito che si manifesta quotidianamente, nella pratica quotidiana, e jo shin, lo spirito che si manifesta quando si smette di separare il quotidiano e la Via, quando si possono raccogliere legna, innaffiare i fiori, preparare i pasti, compiere tutte queste azioni quotidiane senza pensare che la Via sia qualcosa di diverso, consacrandosi completamente a queste azioni in quanto pratica della Via. In altre parole la frase “lo spirito quotidiano è la Via” ci invita a non cercare la Via lontano, perché essa si trova sotto i nostri piedi, spirito ordinario significa non speciale, ma non è l’apologia dello spirito dell’ego.

Domenica 29 agosto 2004, zazen delle 6:30

Nove giorni sono già trascorsi. Questa sesshin sta per terminare, ma la pratica che abbiamo vissuto insieme non dovrebbe arrestarsi mai, è la pratica della non-separazione e ci porta ad abbandonare lo spirito che crea opposizioni. Spesso coloro che hanno partecipato a un campo estivo rimpiangono il tempo trascorso nel momento in cui partono e soffrono all’idea di ritrovarsi nuovamente immerse nella vita quotidiana.

Ma, come diceva Nansen, il Maestro di Joshu, in quella che è poi diventata l’essenza del suo insegnamento, “ lo spirito quotidiano è la Via”. Lo spirito quotidiano è lo spirito vasto, che ingloba ogni cosa nella pratica di gyoji, che si attualizza in ogni cosa. Come possiamo continuare a praticare la Via nella nostra vita familiare, nel lavoro? Avendo cura dell’ambiente che ci circonda, avendo cura di tutti gli esseri. Questo dovrebbe essere il kôangen jo di ognuno, intendendo il termine kôan non come qualcosa di impossibile da risolvere, ma come qualcosa che si può risolvere solo andando al di là del nostro spirito dualista. L’atteggiamento di base consiste nel considerare tutto ciò che ci capita, tutte le situazioni che incontriamo non come ostacoli, ma come altrettante occasioni di praticare la Via. Il Maestro Dôgen definiva questa condizione come “essere ostruiti ovunque dalla Via”, cioè incontrarla ovunque, al punto da non poter sfuggire ad essa.

La vita quotidiana non è solo l’occasione di comprendere lo Zen come quando si ascolta un insegnamento dal quale si spera di trarre una comprensione, ma è l’occasione di praticarlo, di realizzarlo attraverso le azioni del corpo, della parola e l’atteggiamento dello spirito. Poiché lo spirito è all’origine delle nostre parole e delle nostre azioni, deve essere uno spirito che non dimora su nulla, che non si lascia bloccare dalle categorie mentali che abbiamo creato e alle quali siamo rimasti attaccati.

Il Maestro Wanshi diceva: “ Il giusto atteggiamento delle persone della Via è simile alle nuvole che passano”. Si tratta di uno spirito che non afferra nulla, che resta costantemente aperto alla novità di ogni istante, di ogni incontro, capace di essere creativo nella risposta alle situazioni. Questo atteggiamento è anche, come dice Wanshi, simile alla luna piena che si riflette ovunque, senza essere bloccata in alcun luogo, che brilla sulle diecimila forme, cioè su tutti i fenomeni. Questo significa illuminare tutti i fenomeni che incontriamo, le situazioni, alla luce della nostra pratica di zazen, lasciando che questa luce si diffonda nella nostra vita, senza ostacolarla, e significa anche essere illuminati da tutti i fenomeni. Tutto ciò che si manifesta nella nostra vita ci insegna la realtà così com’è. Il senso della nostra pratica è semplicemente essere ricettivi, spogliandoci di ciò che oscura il nostro sguardo.

A questo proposito il Maestro Wanshi dice: “Entrate in contatto con tutta la varietà dei fenomeni con un atteggiamento degno e retto, senza esserne macchiati e senza diventare confusi.”

Questo fatto implica necessariamente la pratica costante del richiamo di zazen, nel praticare tutte le posture della vita, camminando, mangiando, riposandosi, anche divertendosi, ma implica soprattutto, dice Wanshi, agire allo stesso modo in relazione con gli altri, poiché non sono differenti da voi, da noi. Dobbiamo soprattutto vedere che anche se esistono differenze tra le persone, che siano più o meno intelligenti, più o meno simpatiche, con un karma più o meno buono, tutti quanti sono Buddha nello spirito vasto di zazen. Questo atteggiamento implica un grande rispetto per tutti gli esseri, significa proteggere gli esseri sensibili, trattando tutti con benevolenza e compassione, come se fossero i nostri figli. Vi auguro di continuare a realizzare tutto questo.

Raccolta e trascrizione: Myriam Hocine
Traduzione: Maresa Myogen Di Noto