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L'associazione zen bodai dojo è membro dell' UBI, Unione Buddhista Italiana

 
Che cos’è un kusen?

Ku significa bocca, sen, insegnamento. Il kusen è l’insegnamento orale dato dal maestro o dal monaco anziano durante la meditazione.
Kusen
 
9/10 aprile 2005
Sesshin di Parigi
diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

Insegnamento del Maestro Wanshi


Sabato 9 aprile 2005, kusen delle 8:30

In zazen riportate costantemente la vostra attenzione alla postura del corpo, non lasciatevi distrarre dai pensieri. Concentratevi sui punti importanti della postura, inclinate il bacino in avanti, premete sul suolo con le ginocchia, rilassate il ventre e lasciate che il peso del corpo prema sullo zafu. E’ importante sentirsi stabili e ben radicati nella postura seduta. A partire dalla vita si estende la colonna vertebrale rilassando le contrazioni della schiena. Si estende la nuca e si rilassano le spalle. Spingete il cielo con la sommità del capo rientrando bene il mento. Lo sguardo è posato davanti a sé verso il suolo senza fissare nulla di particolare, senza attaccamento agli oggetti che vi circondano, nulla vi disturba. Non si ha dunque bisogno di tenere gli occhi chiusi per concentrarsi, tenete invece gli occhi aperti. La mano sinistra è nella mano destra, i pollici orizzontali, riportate il taglio delle mani in contatto con il basso ventre. Dopo aver controllato i punti importanti della postura si può porre la propria attenzione sul contatto tra i pollici, semplicemente su questo contatto. I pollici si toccano delicatamente senza tensioni, senza formare né montagne né valli. Le mani non afferrano nulla, non fabbricano nulla, sono nella postura di Hokai Jo hin, cioè nella forma ovale che ingloba ogni cosa. Questa forma influenza la condizione dello spirito in zazen. Anche lo spirito diventa rotondo, non afferrando nulla, inglobando ogni cosa nella pratica. Concentrandosi sul contatto tra i pollici, in realtà si finisce con il pensare col corpo intero, l’attività mentale si calma, si abbandona ogni forma di pensiero discriminante, legato ai giudizi, alle preferenze. Si accetta semplicemente ciò che appare ad ogni istante così com’è, senza impadronirsene, e senza respingere i pensieri o le emozioni che sorgono, inglobandoli nella pratica. In questo modo passano rapidamente senza oscurare lo spirito, cioè senza creare reazione e tensione nello spirito. Si inspira e si espira con calma seguendo il movimento della respirazione piuttosto che i pensieri, poiché la respirazione ci riporta sempre al qui ed ora della nostra pratica, mentre i pensieri hanno la tendenza a trascinarci altrove, prima, dopo, se ce ne impadroniamo. Se invece li lasciamo cadere non ci disturbano più. Quando durante una sesshin si continua a praticare in questo modo lo spirito diventa chiaro, ritrova il suo carattere vasto, che ingloba ogni cosa, senza essere limitato dalle nostre piccole categorie mentali. Ritrova la sua capacità di illuminare ogni cosa, tutto ciò che appare, per vederlo così com’è, cioè senza sostanza, senza nulla a cui attaccarsi. Questo modo di vedere è la maniera risvegliata, l’autentica intuizione di zazen, cioè vedere direttamente, immediatamente.

Questo modo di praticare è quello che insegnava il Maestro Wanshi e nel corso di questa sesshin continuerò a fare riferimento al suo insegnamento per illuminare la vostra pratica.

In particolare diceva: « Vasto e naturalmente luminoso, lo spirito risvegliato, cioè lo spirito di zazen, penetra tutto senza afferrare nulla, nemmeno il merito della propria illuminazione »

A maggior ragione, evidentemente, non si afferrano tutte le illusioni che sorgono istante dopo istante. E’ ciò che Wanshi esprime dicendo che lo spirito di zazen apprende ogni cosa senza essere limitato dal pensiero discorsivo, cioè senza pensare coscientemente, senza giudicare, misurare, paragonare, seguire o respingere. Tutti questi movimenti dello spirito cosciente sono abbandonati. In questo modo si può letteralmente emergere al di là di ogni forma di pensiero dualistico, di attaccamento all’esistenza o alla non-esistenza. Questo permette anche di andare al di là di ogni forma di emozione e di iniziare a funzionare, sperimentando realmente, concretamente il tipo di funzionamento dello spirito del Buddha, completamente vasto, aperto e senza ostacolo.

Sabato 9 aprile 2005, kusen delle 11:00

Durante zazen ci si concentra totalmente sulla postura, dedicandole tutta la nostra attenzione e la nostra energia. In questo modo tutto il nostro essere diventa qui ed ora questo corpo e questo spirito seduto nella postura di zazen. Null’altro occupa la nostra attenzione al di là del fatto di essere totalmente seduti. Questo significa che si è letteralmente assorbiti dalla postura di zazen, non c’è più posto per le ruminazioni, le cogitazioni mentali, i giudizi, i paragoni, tutti i resti dell’attività mentale. Tutto questo è completamente abbandonato, anche se si manifesta per abitudine a causa dei nostri vecchi condizionamenti, ma appena ne prendiamo coscienza lo lasciamo cadere, lo lasciamo passare. In questa totale concentrazione sulla postura non c’è nemmeno più coscienza o attaccamento alla postura. Non c’è più due, io che mi concentro sulla mia postura, c’è solo un corpo-spirito completamente seduto in zazen, spogliato da ogni secondo fine, da ogni intenzione, da ogni volontà di voler afferrare o respingere alcunché, così come da ogni misura, da ogni valutazione. Lo spirito che calcola è abbandonato e in questo abbandono è realizzata la liberazione incomparabile. E’ l’occasione di sperimentare la naturale libertà dello spirito e del corpo quando non sono più costretti dalle nostre vecchie abitudini mentali. Questo modo di praticare è la totalità della pelle, della carne, delle ossa e del midollo che realizza zazen.

Quando Bodhidharma volle testare i suoi discepoli chiese loro di esprimere la comprensione del suo insegnamento. I primi tre produssero delle risposte verbali, il quarto, Eka, si prosternò semplicemente in sanpaï. La storia narra che Bodhidharma aveva detto successivamente agli uni e agli altri: « Voi avete ottenuto la mia pelle, la mia carne, le mie ossa. » Poi aveva detto a Eka: « Voi avete ottenuto il mio midollo, il midollo del mio insegnamento ». Poiché in seguito Eka è divenuto il successore di Bodhidharma se ne è dedotto che solo lui avesse realmente compreso, che la sua comprensione fosse più profonda rispetto a quella degli altri. Questo fatto ha creato ogni sorta di complicazioni nello spirito dei praticanti dello zen.

Già prima del Maestro Dôgen, il Maestro Wanshi protestava contro questa interpretazione dicendo che il raggiungere la pelle o il midollo costituiscono solo delle tappe, cioè dei gradi di paragone, di profondità di realizzazione più o meno grandi. Questo fatto ha creato delle difficoltà, la creazione di differenti correnti. Voler comparare la profondità della pratica e della realizzazione non fa che turbare la pratica stessa. Diventano, come dice Wanshi, come dei trucioli di segatura che vi cadono negli occhi. In seguito a questo i monaci si sono abbandonati a ogni sorta di eccessi. Seguendoli, ci dice Wanshi, come potete agire e praticare in modo appropriato?

« La sola cosa da fare, proprio qui ed ora, è abbandonare la presa, lasciar cadere, abbandonare ogni cosa, praticando al di là di ogni paragone, di ogni grado, di ogni misura di profondità o di altezza, abbandonando lo spirito che misura, che calcola, che paragona, che vuole una realizzazione superiore, che crede di avere una comprensione superiore a quella degli altri, poiché tutte queste sono solo trappole dell’ego che si impadronisce della pratica impedendole di essere veramente liberatrice ».

Se si pratica lasciano veramente cadere tutto questo, lasciandosi assorbire veramente dalla pratica di ogni istante, allora, dice Wanshi, nemmeno un semplice capello o un grano di riso può creare ostacolo, non può impedirci di essere totalmente rinnovati, corretti dalla pratica di zazen, ritrovando uno spirito nuovo e un corpo nuovo che emergono dai nostri vecchi condizionamenti. Ognuno può realizzarlo. Non vi è altro da fare.

Possiamo ritrovare in zazen questo spirito originario, assolutamente senza difetto, che ingloba ogni cosa senza escludere nulla. Esprimere questo significa indicare una direzione della pratica poiché in ultimo, come dice Wanshi, il linguaggio non può raggiungerla. Anche ascoltando, non possiamo sentirla, guardando non possiamole vederla né toccarla, poiché si tratta di qualcosa che è inafferrabile. Possiamo armonizzarci con questo solo smettendo di voler afferrare alcunché.

Il Maestro Wanshi terminava dicendo: « Potete ingenuamente circolare in questo semplice raggio di luce, potete circolare ingenuamente nella pratica, cioè senza secondi fini ». Allora, per favore, utilizzate la vostra vitalità, la vostra energia per praticare questo.

Sabato 9 aprile 2005, kusen delle 16:30

In questo dojo ci sono dei monaci, delle monache, delle persone che hanno ricevuto i precetti di bodhisattvâ, dei praticanti laici che non hanno ricevuto ordinazione. Malgrado queste differenze ognuno segue la stessa pratica. Per quanto riguarda la pratica di zazen non vi sono in fondo differenze tra il fatto di essere monaco, monaca, bodhisattvâ o laico e questo avviene sin dalle origini dello zen. Si tratta della stessa pratica, della stessa realizzazione. Il punto importante è che ci sia una pratica con realizzazione e non il seguire semplicemente la forma esteriore della pratica senza realizzare profondamente ciò che ci mostra e ci rivela.

A questo proposito il Maestro Wanshi ci dice: « Da quando sono apparsi i primi patriarchi non esistevano opposizioni tra monaci e laici. Ognuno aveva la sua verità, la sua posizione ed è quando realizzavano intimamente l’essenza della pratica che si diceva entrassero nella scuola dello spirito del Buddha. »

Era il nome della scuola zen all’inizio. E’ diventando veramente intimi con il proprio spirito che si penetra lo spirito del Buddha, che ci si risveglia alla realtà, che si entra veramente nella Via dello zen. Non c’è zen senza realizzazione, senza esperienza reale. In altre parole, lo zen non ammette le imitazioni.

Per questo motivo non è possibile praticare a metà. Quando ci si impegna nella pratica di zazen lo si fa totalmente, ad ogni istante della pratica. All’inizio di questa sesshin ho insistito molto sulla necessità di tornare costantemente alla concentrazione sulla postura, sulla respirazione. Questa concentrazione ci permette di chiarificare lo spirito. Una volta chiarificato lo spirito, calmata l’agitazione mentale, non significa che non ci siano più illusioni che appaiono, pensieri, emozioni che attraversano lo spirito. La concentrazione permette di ritrovare uno spirito che funziona come uno specchio. La funzione di uno specchio è di riflettere tutte le forme che si presentano davanti a lui così come sono, senza deformarle, senza nemmeno trattenerle, accumularle. E’ anche la funzione dello spirito in zazen, della concentrazione in zazen.

Se si rimane soltanto su questo versante della pratica della concentrazione si rischia di rimanere ossessionati da ciò che perturba la chiarezza dello specchio, un po’ come le casalinghe molto scrupolose che amano il loro appartamento pulito e non sopportano la minima polvere. Si rischia di sentirsi disturbati da ogni pensiero, ogni percezione, ogni fenomeno che sorge, di trovarsi in opposizione con ciò che si presenta ad ogni istante, alla ricerca di una condizione di non-pensiero, quando invece la funzione dello specchio è di riflettere ciò che è, così com’è. Volere che non ci sia alcun riflesso è, come diceva Menzan, prendere lo specchio al contrario, guardarlo dal lato che non riflette nulla.

Invece è importante vedere intuitivamente che ciò che è riflesso non è nulla, nulla si sostanziale, nulla che possa veramente disturbare alcunché, a patto che se ne percepisca chiaramente la vacuità, senza impadronircene, senza identificarci. Quando si fa questa esperienza c’è ancora il rischio di rimanere attaccati a qualcosa, allo specchio stesso, così prezioso. Allora è importante realizzare che anche lo specchio stesso non è nulla in sé, continuando a praticare liberamente, senza attaccarsi né ai fenomeni che sorgono, né alla vacuità, né allo specchio.

E’ il senso del poema di Eno, così celebre, che Wanshi ricorda riportandoci alla pratica di gyoji, poiché è pulendo il riso in cucina, assiduamente, facendo samu quotidianamente che Eno ha realizzato uno spirito simile a uno specchio, potendo così andare al di là di tutte le impurità del mondo e risvegliandosi totalmente. L’esempio di Eno, che era solo un discepolo laico e che, in ogni caso all’inizio, praticava molto poco zazen perché era impegnato in cucina, è là per ricordarci che la pratica -gyoji – è illimitata, non è limitata alla forma di zazen o al tempo di zazen, né alla condizione di monaco. Ognuno può realizzarla, ognuno può risvegliarsi, anche attraverso le azioni semplici quali il samu nella vita quotidiana.

Sabato 9 aprile 2005, mondo

- Ho cominciato a praticare negli Stati Uniti e durante il tuo kusen mi è tornato in mente un termine che ricorreva spesso là, samadhi, lo stato quando si fa zazen, anche al di fuori di zazen. Non l’ho mai sentito qui, è forse una parola che non si usa in francese? E’ importante?

- E’ vero che non lo si utilizza, si parla della concentrazione, di hishiryo che si pone al di là della concentrazione stessa, ma non si parla di samadhi. Il Maestro Deshimaru non utilizzava questo termine. Samadhi significa grande concentrazione, una condizione dello spirito calma, chiara e lucida, senza nulla che la agiti, una condizione simile allo specchio di cui parlavo prima. Ma il samadhi è solo uno stato che permette di vedere chiaro, non bisogna attaccarsi ad esso. Forse è questa la ragione per la quale non se ne parla tanto. Si evoca la necessità di essere concentrati, la concentrazione conduce naturalmente a uno stato di samadhi più o meno profondo, ma compiacersi in esso è tipico dello yoga, non dell’insegnamento del Buddha. A partire dal samadhi occorre vedere a che punto si è ed anche il fatto di vedere, cioè di praticare l’osservazione, in un certo senso disturba il samadhi, perché a quel punto lo spirito osserva a partire da questa concentrazione per vedere ciò che è. Il Maestro Deshimaru insegnava la condizione equilibrata dello spirito tra concentrazione ed osservazione, tra samadhi e prajna, se vogliamo usare parole d’origine indiana. Samadhi, lo stato di grande concentrazione e prajna, la saggezza che vede, che osserva chiaramente e che è condizionata da questo stato di concentrazione. Il samadhi costituisce un modo di entrata nel risveglio, ma non è sufficiente. Tutti abbiamo bisogno di molta concentrazione, poiché il nostro tipo di vita e la nostra abitudine mentale di occidentali fanno in genere di noi persone che pensano troppo, che sono troppo agitate, il nostro problema è un po’ questo. Quindi tutto ciò che riguarda la concentrazione nella pratica di zazen deve essere accentuato, ricordato, raccomandato costantemente. Per una buona metà della sua missione il Maestro Deshimaru ha parlato essenzialmente di concentrazione. E’ solo nel giro di sette o otto anni che ha cominciato una serie di insegnamenti su concentrazione e osservazione dicendo: attenzione, la pratica di zazen non è solo concentrazione, è anche osservazione, occorre che i due aspetti siano allo stesso livello.

- Dunque prima di tutto giungere ad uno stato di concentrazione per osservare con chiarezza le cose…

- Proprio così. A questo proposito si dice che finché la superficie dell’acqua non è calma, finché le onde agitano la superficie, non è possibile vedere la perla che è sul fondo. E’ la metafora classica a questo proposito. Quando la superficie dell’acqua si calma, diventa liscia, permettendo allo sguardo di andare sino in fondo, e ancora di più, perché la superficie stessa riflette tutto il cosmo, è la totale trasparenza verso l’interno e la capacità di riflettere le percezioni, che vengono dall’esterno con chiarezza. A quel punto occorre vedere, altrimenti tutto ciò non serve a nulla, sarebbe come avere uno specchio senza servirsene, senza guardare.

- Non bisogna solo compiacersi nello stato di concentrazione…

- Sì, perché questo può essere uno stato di grande benessere. Se siamo molto agitati mentalmente e improvvisamente troviamo la calma ci sentiamo molto meglio ed è già un grande merito di zazen condurre a questa pace dello spirito, ma non è sufficiente, perché, al limite, anche qualcuno molto concentrato nella pesca con la lenza, ammesso che abbia dimenticato di prendere i pesci, se è solo concentrato a guardare il sughero della lenza potrebbe arrivare a uno stato di samadhi. Del resto il Buddha stesso racconta di come nella sua gioventù fosse entrato in uno stato di samadhi, guardando suo padre coltivare un campo, vi si era completamente immerso. Concentrato completamente nella natura. E non è in quel momento che ha realizzato il risveglio.

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- Quando si lavora nel sociale ci si occupa spesso degli altri, si hanno delle responsabilità ed io ho spesso l’impressione di perdermi. Sono educatrice e non so come resistere.

- Penso che proprio le persone come te abbiano bisogno di una pratica della concentrazione per arrivare a ritrovare la giusta direzione, dal momento che siete rivolti costantemente verso gli altri e potreste avere la tendenza, dipende dal carattere, di assorbire completamente i problemi, identificandovi con essi, perdendovi, come dici. Questo implica che non potrete riuscire ad aiutare le persone a ritrovare se stesse, quindi le persone che si perdono sono due! Non va bene, certo. Un salvatore in mare deve saper nuotare, senza annegare con chi deve salvare. Quando si lavora all’interno di una relazione di aiuto, è importante avere la capacità di ricentrarsi. Forse è il motivo per il quale tante persone che lavorano in questo settore praticano zazen, proprio perché li aiuta.

- Quando sono nel dojo va bene, ma quando si è nella vita quotidiana non è facile.

- Cerca di avere nella vita professionale una tecnica di richiamo, quando ti senti un po’ sommersa, nulla ti impedisce di sederti e di passare due, tre minuti espirando profondamente, cercando di centrarti sul tuo corpo, anche camminando, muovendoti, facendo un lavoro manuale o praticando un’attività fisica. Certo, questo implica il trovare dei momenti, forse una volta all’ora, nei quali non discutere con gli altri, potresti chiuderti in bagno, è un buon luogo per meditare, concentrandoti per due minuti, non è tanto lungo e ti permette di continuare. Nei monasteri zen la vita quotidiana è regolata dai ritorni nel dojo, si comincia facendo zazen, poi c’è una cerimonia, poi il samu, poi si ritorna nel dojo, poi c’è il pasto, è un anello tutta la giornata. Esistono dei richiami automatici con il ritorno al dojo e con il fatto che il samu è praticato in silenzio, con la stessa concentrazione di zazen. Nel nostro mondo agitato abbiamo difficoltà a portare nella vita quotidiana ciò che viviamo nel dojo, così occorre darsi i mezzi, quasi dei trucchi. Prova a fare ciò che ti ho consigliato, ti sembra possibile?

- Sì, certo.

- C’è poi un’altra cosa delicata per quanto riguarda la relazione di aiuto, quando si vuole aiutare qualcuno occorre sviluppare una certa capacità di empatia, mettendosi al posto dell’altro, perché se l’altro ci è del tutto estraneo, non è possibile comprendere le sue difficoltà e trovare il modo per aiutarlo. Ma se, mettendoci al posto di qualcuno che si trova in grandi difficoltà spingiamo troppo oltre questa empatia, si diventa come la persona in questione. Occorre dunque saper giocare su questa capacità della coscienza, di uscire e rientrare, di identificarsi con l’altro ma anche di ricentrarsi su di sé. Si sviluppa questa pratica durante zazen, in rapporto all’osservazione, è il famoso insegnamento del maestro Tozan, i fenomeni che sorgono sono io, ma al tempo stesso io non sono quello. L’altro sono io, ma io non sono l’altro. Riconoscere dunque che c’è una partecipazione, una intimità, che siamo unità con l’altro, ma al tempo stesso l’altro è l’altro e tu sei tu. Non è contraddittorio. Per noi, con la nostra logica cartesiana, è l’uno o l’altro, « oppure ». Ma sono entrambi. Si tratta in effetti di movimenti di andata e ritorno molto rapidi, movimenti di empatia verso l’altro, si è presi dall’emozione, si ha voglia di piangere con la persona che piange, ci si sente infelici perché la persona è infelice. Ma presto si ritrova il centro, l’altro ritorna ad essere l’altro e il sé ritorna ad essere sé. La respirazione è molto importante per questa centratura immediata. Anche durante un colloquio con qualcuno puoi, senza dover fuggire alla toilette, ricentrarti sul tuo corpo, partendo da come sei seduta, ed essere attenta alla tua respirazione. Questo consente da un lato di avere questa flessibilità dello spirito, di non essere sulla difensiva (non sono questa persona, mi fa paura, non vorrei essere come lei) e di potersi fermare, dall’altro di non confluire in una empatia totale, nella quale si perdono i limiti e si diventa a tal punto l’altro da annegare con lui, come un salvatore che non sa nuotare.

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- Hai parlato molto dello specchio. Non molto tempo fa ho fatto un’esperienza che mi ha turbato, poiché lo specchio può anche rivelare i demoni nell’altro. Quando si è molto tranquilli, quando si è in una situazione difficile, o si giunge ad essere molto concentrati, l’altro, la persona che è di fronte, può vedere improvvisamente qualcosa che si rivela e che deriva dalle sue reazioni violente, mentre non c’era nessuna violenza nella concentrazione.

- Vuoi dire che l’altro si è visto nello specchio dei tuoi occhi ed ha visto il suo demone…

- Proprio così. Ha senso ? O è qualcosa che nasce dalla fantasia ? Non ho capito, non avevo nulla di intenzionale.

- Esistono due aspetti. Il primo è che probabilmente il tuo stato di concentrazione equanime ed imperturbabile è stato ricevuto dall’altro come una provocazione, soprattutto se l’altro era, al contrario, in uno stato di tensione interiore. Se qualcuno che è in collera ha davanti una persona che rimane molto calma, questo può innervosire (risate) « Accidenti, si arrabbierà anche lei ! »: ti provocherà fino a condividere il suo stato. Se tu rimani imperturbabile può essere vissuto come una provocazione. Lo abbiamo constatato tutti. Non si tratta di andare in collera con le persone in collera, né ad angosciarsi con chi si angoscia, ma un pochino è necessario, è importante partecipare e soprattutto dire ciò che si percepisce: « Percepisco la tua collera, so che non è piacevole essere in quello stato, in questo momento per me vederti così è un dispiacere. » Vedi, si tratta di dire qualcosa del genere, affinché l’altro non abbia l’impressione di avere un muro davanti a lui.

Il secondo aspetto ha per me un senso positivo, si collega a un’esperienza che ho fatto spesso con il Maestro Deshimaru. Spesso, quando dovevo incontrarlo, sul percorso pensavo a qualcosa e mi dicevo che avrei potuto approfittare dell’incontro per porre una certa domanda, poi, arrivando davanti a lui, immediatamente quella che era la mia domanda, ciò che mi turbava, nove volte su dieci mi pareva del tutto stupida e illusoria. Semplicemente era avvenuto che il mio problema, visto attraverso il suo sguardo, appariva per quello che era veramente, nulla, insignificante, idiota, senza necessità di essere posto. La domanda cadeva e non la ponevo quasi mai, ma questo fatto non mi faceva arrabbiare. Nel Maestro Deshimaru incontravo sempre una persona accogliente e molto ricettiva, non so se cogli la sfumatura.

- Questa esperienza dello specchio negativo è avvenuta solo una volta, di solito ha un effetto positivo. In questo caso però ero molto turbata, non so, non credo di essere stata provocatrice in modo imperturbabile.

- Senza volerlo, era la tua calma a provocare, ma non era una provocazione da parte tua. Sei rimasta silenziosa, non hai detto o fatto nulla?

- Sì.

- Ah, è quello l’errore! Bisogna dire qualcosa, distende.

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- La mia domanda riguarda la postura. Durante zazen mi sono mosso un po’, è difficile tenere sempre la postura, ho cambiato l’incrocio delle gambe. Come si può trovare la buona postura dal momento che è così mutevole, stavo cercando una postura di confort o di mancanza di confort, forse la mia domanda non è molto chiara…

- E’ una domanda da principiante, ma penso che la si ponga anche quando si ha maggiore esperienza. In generale la postura di zazen è destinata ad essere confortevole, non è destinata a causare dolori e difficoltà. E’ una postura classica nello yoga indiano per la meditazione, conferisce una buona stabilità. Si può rimanere così delle ore senza muoversi, ci si sente bene. Il peso del corpo ben distribuito tra le ginocchia, il punto che preme sullo zafu, il corpo sulla sua verticale, che non si inclina né in avanti né indietro, né di lato, dunque sta fermo con un minimo di energia. Se si è inclinati in avanti occorre una certa energia per resistere all’attrazione, dunque non si è in equilibrio, ma se si è verticali, allora è l’equilibrio perfetto. Dunque occorre un minimo di energia, di sforzo per mantenere questa postura.. il problema è che non siamo abituati. Se cominciamo a praticare a 30, 40 o 50 anni abbiamo un corpo che ha una storia, dunque all’inizio abbiamo difficoltà, il corpo deve abituarsi alla postura. In quel caso incontriamo difficoltà ed è in quel momento che bisogna diffidare e non ricercare una postura confortevole, ma cercare la postura giusta, così come è descritta, perché non è detto che sia cattiva anche se non è confortevole. All’inizio può essere poco confortevole, proprio perché è in abituale restare diritti, tendere le reni, la colonna vertebrale, la nuca, rientrare il mento, se si ha l’abitudine di restare insaccati. Il fatto di voler rimanere diritti sarà poco confortevole. Se ci si dice: « Devo trovare una postura confortevole, mi rilasso e mi metto come al solito », non va bene. Dobbiamo allora ricercare la postura giusta, così come è descritta e come ti viene corretta. Spesso i kyosakuman passano dietro di te e se vedono che non va bene correggono la tua postura. Occorre cercare di trovare la postura giusta, ma all’inizio sarà per forza l’imitazione di un modello ideale di qualcosa che vi è stato mostrato e che si cerca di raggiungere. Dopo, una volta che si sente che è la postura giusta, che la si è sperimentata, bisogna cercare di ritrovarla e di tenerla senza che imponga dolori insopportabili. Quindi l’aggiustamento è molto più sottile. Il principiante si muoverà certamente per cambiare l’incrocio, cambiare postura e anche perché è troppo scomodo, poi, con l’abitudine, quando si è bene compreso cosa sia la postura giusta, allora può capitare di muoversi, a un certo punto magari ci si sente troppo tesi o troppo rilasciati, allora si fanno piccoli aggiustamenti impercettibili per gli altri. Li si vede appena, in realtà ci si raddrizza leggermente, si tendono un poco le reni, si rientra il mento. Oppure ci si rende conto improvvisamente di avere le spalle tese e le rilassiamo. Se le reni sono troppo tese ed il plesso solare è teso, allora si allenta un pochino la tensione delle reni. Si tratta di piccoli aggiustamenti che sono certamente permessi, poiché zazen è flessibile, vivo, non significa essere come una statua di marmo, bloccata, irrigidita in una postura. In quanto principiante non cercare la postura confortevole, perché spesso, quando si inizia, la si confonde con la postura della vita quotidiana, quella alla quale siamo abituati.

Esiste poi il tuo atteggiamento nei confronti della difficoltà. Quando si pratica lo zen non si devono fuggire le difficoltà. Non bisogna nemmeno ricercare le difficoltà eccessive e le mortificazioni, è un estremo da evitare, ma non bisogna nemmeno fuggire le difficoltà. Una certa dose di difficoltà, in particolare durante le sesshin, dove si hanno molte ore di zazen al giorno, è inevitabile. A quel momento vi si fa fronte e questo atteggiamento fa completamente parte della pratica. Non è quello che capita ad essere importante, ma come vi si fa fronte, come si giunge ad attraversare, a oltrepassare, ad andare al di là degli ostacoli che si incontrano. E’ questa la pratica. Il fatto che ci siano degli ostacoli è normale. Non si deve ricercare una condizione senza dolore, del tutto confortevole, bisogna piuttosto cercare di avere una pratica e una postura giusta cercando di attraversare le difficoltà che questo ci fa incontrare con un atteggiamento di abbandono della presa, non di volontarismo, di drammatizzazione dell’impazienza, della scomodità, del dolore e a quel momento vedrai che andrà molto meglio perché sarai stato capace di liberarti di molte cose. Invece, se ti sedessi direttamente in una postura confortevole, non avresti l’occasione di sperimentare l’abbandono della presa, di sperimentare l’impazienza, che va al di là del dolore.

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- Vorrei sapere perché quando pratico zazen comincio a piangere.

- Anche ora non sei lontana dal farlo…

- Sono molto commossa. Vorrei sapere se è una difesa degli occhi o se si tratta di qualcosa di particolare.

- Non credo si tratti degli occhi, quanto di una emozione profonda che ha bisogno di uscire. Ridi e piangi al tempo stesso. La cosa migliore è accettarlo, praticando zazen con esso. Ho conosciuto molte persone che per mesi si sedevano in zazen e cominciavano a piangere subito, per cinque minuti piangevano come fontane. Potresti metterti ogni cosa, ad esempio un piccolo grembiule (risate) e alla fine di zazen lo scrolli! Forse sono tutte le lacrime che hai trattenuto nella tua infanzia e che hanno voglia di uscire. Abbiamo sbagliato a trattenerle, è molto meglio lasciarle uscire. Bisogna poi vedere che stato d’animo accompagna questa voglia di piangere. Se, insieme a questa voglia di piangere, noti che cose dolorose ed avvenimenti tristi si affacciano alla tua coscienza, è importante chiarire la causa di questi dolori. A volte non si riesce nemmeno a percepirne la causa, non ci sono pensieri particolari. Credo che in questo caso si tratti di lacrime risalenti a molto lontano, che sono state contenute, trattenute ed è bene che escano, a condizione di non cominciare a singhiozzare rumorosamente, non bisogna aggiungere, non siamo in un gruppo di terapia.

- Ma non è la prima volta, pratico da un anno e mezzo da sola…

- Non va molto bene quando si è principianti. Puoi praticare da sola a patto di venire almeno due volta alla settimana al dojo. E quando fai zazen da sola è lo stesso?

- Lo stesso. Ho cominciato a cambiare la pratica, a chiudere gli occhi…

- Non serve a niente. Chiudere gli occhi ti ha impedito di piangere?

- Ho chiuso gli occhi ma sono giunte altre cose…

- Dei fantasmi ? E’ meglio non chiudere gli occhi, perché le lacrime danno meno fastidio di tutti i fantasmi che appaiono quando si chiudono gli occhi. Tutti i maestri hanno raccomandato di praticare con gli occhi aperti dicendo che altrimenti si praticava uno zazen di fantasmi.

- Ma cosa tu pensi di…siamo una generazione nuova… forse il metodo… Ho letto dei libri nei quali si diceva di chiudere gli occhi, non è così che Shakyamuni…

- Penso che da questo punto di vista non ci sia nulla di diverso dall’epoca del Buddha. Esistono differenze nelle condizioni di vita. Chi viene a praticare in questo dojo alle sette di sera dopo aver fatto un’ora di metrò, dopo una giornata di trepidazione, giunge forse in una condizione di nervosismo, di eccitazione difficile da calmare in un attimo. Forse, in quel caso, è possibile cominciare zazen chiudendo gli occhi per qualche minuto, questo è qualcosa che i maestri zen hanno accettato. E’ vero che chiudere gli occhi per qualche minuto calma. Ma se si continua troppo a lungo con gli occhi chiusi allora appare tutta la fantasmagoria interiore, uno stato vicino al sogno che non è più zazen, ma uno stato bizzarro che non va bene. La cosa importante, ancora una volta, non è ciò che si manifesta…non bisogna cercare di evitarlo. Tu vuoi evitare le lacrime, vuoi evitare qualcosa, ma in zazen non si evita nulla, è proprio quello che si fa nella vita, voler evitare le cose invece di attraversarle.

- Vorrei sapere per quale ragione….Non c’era un motivo, non ho passato le mie giornate con tristezza, tutto va bene, non ho problemi.

- Sì, ma ad esempio proprio ora, davanti a me, quando hai cominciato a parlare eri molto commossa, lo sento bene, piena di tristezza contenuta.

- Ero molto commossa venendo qui…

- E ancora ora. Forse non si tratta di tristezza, ma di qualcosa di diverso, esistono anche le lacrime di gioia. E’ importante che tu capisca che cosa succede. Osservati, io non posso saperlo al tuo posto. Osserva il tuo spirito, cercando di chiarificare cosa avviene, senza cercare di evitarlo, ma sforzandoti di fare zazen insieme, includendo tutto ciò che capita all’interno della tua pratica di zazen. Non vedere le tue lacrime, le emozioni o i fantasmi come cose che perturbano la pratica, vedili piuttosto come parti della vita di zazen. Devi prendere coscienza di ciò che avviene senza ristagnare in uno stato particolare, cercando di centrarti sulla tua postura, sulla respirazione, attraversando questi stati, che siano lacrime di gioia o di tristezza, senza reprimere nulla e senza attaccarti a nulla, restando centrata sul tuo corpo e sulla tua respirazione.

Domenica 10 aprile 2005, kusen delle 7:30

Non lasciate che la vostra postura si rilasci, inclinate il bacino in avanti, estendete la colonna vertebrale a partire dalla vita, senza cercare di economizzare le energie. In questo modo zazen diventa forte, trasportandovi letteralmente al di là di voi stessi, senza dover fare sforzi particolari. Non accontentatevi semplicemente di concentrarvi sulla postura e sulla respirazione, ma osservate intimamente ciò che avviene in voi. Volgete il vostro sguardo verso l’interno e guardate, senza accontentarvi di osservare semplicemente i vostri pensieri, i vostri desideri, i vostri fantasmi, ma osservate davvero di cosa si tratta, osservate che cosa appare e scompare di istante in istante. Quando Eno faceva samu nella cucina e passava le sue giornate a mondare il riso, realizzò intimamente ciò che viene definito le impurità dello spirito, le polveri che ricoprono lo specchio del samadhi, che non hanno in realtà alcuna esistenza propria. Esse non fanno altro che apparire e scomparire momentaneamente. Non accontentiamoci di fare riferimento all’esperienza di Eno o anche di credervi. Ognuno deve realizzare ciò intimamente volgendo il suo sguardo verso l’interno ed osservando attentamente, ponendosi in questa attenzione al momento giusto, prima del sorgere di un pensiero. In genere si prende coscienza dei pensieri, delle immagini, dei ricordi una volta che si sono già formati nello spirito, ma che cosa era l’istante prima, il momento in cui questo sorge, appare? Non cercate di spiegare, di comprendere, accontentatevi di vedere semplicemente cosa succede. Quando si pratica in questo modo, con lo sguardo rivolto verso l’interno, l’attaccamento a tutte le costruzioni mentali si dissolve rapidamente, scompare. E poiché non alimentiamo queste fabbricazioni, non conferiamo loro interesse, sostanza reale, esse svaniscono come nuvole, evaporano rapidamente come la rugiada. Non è il caso di lottare per eliminare le illusioni, è sufficiente vedere cosa è e lasciare passare. Dopo aver ricevuto la trasmissione da Konin, Eno, dietro consiglio del suo maestro, lasciò il tempio e partì per il sud della Cina. Alcuni discepoli gelosi del fatto che avesse ricevuto questa trasmissione insieme al kesa del suo maestro, si lanciarono all’inseguimento. E’ il celebre Sutra della piattaforma. Nel momento in cui stava per essere raggiunto da un gruppo diretto da un discepolo molto forte di Konin, un vecchio generale, Yui Ming, Eno posò il kesa e la ciotola della trasmissione su una roccia. Yui Ming impadronendosene non riuscì a sollevarlo, a portarlo via e realizzò in quel momento che cercava non tanto il simbolo quanto la vera realizzazione, non un oggetto ma l’autentico risveglio. Chiese immediatamente a Eno di istruirlo e l’insegnamento di Eno fu molto semplice. Gli disse: « Siediti con calma senza pensare né al bene né al male, trova il tuo viso originario ». Praticando così Yui Ming si risvegliò immediatamente. Chiese ad Eno se c’erano altri insegnamenti importanti da praticare ed Eno gli rispose semplicemente: « Continua a volgerti verso la tua luce interiore e troverai tutto ciò di cui hai bisogno ». Eno insegnava in questo modo l’essenza di zazen, di shikantaza, ripresi da Dôgen in ciò che raccomanda, Eko ensho, volgere il proprio sguardo verso l’interno e illuminare il proprio autentico spirito, la propria natura. Non c’è bisogno di chiedere agli altri un insegnamento o di riferirsi al risveglio degli altri.

La conclusione di Wanshi: « Non acconsentite ai saggi, non accontentatevi di esaltare le loro parole, ma realizzatele da soli. E’ così che è appropriato rivestire il kesa e mangiare la guen maï.»

Domenica 10 aprile 2005, kusen delle 10:30

La sesshin sarà presto conclusa, restate vigilanti fino in fondo, non lasciatevi distrarre dai pensieri, soprattutto non prendeteli in considerazione. Pochi istanti fa ascoltavamo le campane della chiesa da cui è partito il suono, di nuovo le campane suonano da dove è partito il silenzio. Quando si osserva così la comparsa e la scomparsa dei fenomeni di istante in istante, non ci si lascia contaminare dagli attaccamenti. E’ la pratica che ci raccomanda il Maestro Wanshi. Ci dice: « Spogliate questo corpo, lasciatelo cadere, avanzate ancora di un passo sul bordo della scogliera, cioè non esitate ad avanzare là dove non c’è supporto, non esitate a contattare la realtà dove nulla dimora ».

Il Maestro Wanshi insiste su queste raccomandazioni dicendoci: « Comprendete le vostre facoltà sensoriali e i loro oggetti finché esse non saranno completamente esaurite, fino a realizzare intimamente che le campane suonano, che le nostre orecchie sentono il suono, ad esempio che c’è rumore nel cortile, e che tutti questi suoni sono assolutamente inafferrabili e non dimorano in alcun luogo, proprio come i nostri pensieri e tutte le nostre costruzioni mentali, che sono solo delle scintille che scaturiscono nell’oscurità. »

Praticando in questo modo realizziamo uno spirito che non ristagna su nulla, che percepisce chiaramente ma non trattiene nulla, ritrovando costantemente la sua disponibilità, la sua freschezza.

Wanshi continua dicendo: « La luce solitaria è la sola illuminazione che, penetrata profondamente, riserva la meraviglia. » In zazen la luce della coscienza illumina ogni cosa, ma senza impadronirsi di alcun oggetto. Solitario significa al di là da qualsivoglia attaccamento, al di là della stessa solitudine, al di là della pienezza come della mancanza. E questa esperienza preserva ciò che vi è di meraviglioso nell’esistenza. Non c’è bisogno di cercare lontano, di lanciarsi in ogni sorta di fabbricazioni, è sufficiente penetrare l’esperienza di ognuno, totalmente, così come andiamo totalmente sino alla fine di ogni espirazione.

Wanshi termina dicendo: « Come avete mai potuto essere separati da tutti i fenomeni mutevoli ! »

Per noi questo corrisponde esattamente ad ora, al tempo della sesshin. Potete rientrare tra tutti gli esseri differenti e viaggiare sulla via dell’uccello senza ostacoli, finalmente liberi.

Traduzione: Maresa Myogen Di Noto